«Abbiamo fatto germinare le nostre idee per imparare a sopravvivere in mezzo a tanta fame, per difenderci da tanto scandalo e dagli attacchi, per organizzarci in mezzo a tanta confusione, per rincuorarci nonostante la profonda tristezza.
E per sognare oltre tanta disperazione.»


Da un calendario inca degli inizi della Conquista dell'America.
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CUBA / Il senso di una transizione incerta

La riforma economica a Cuba tende a restaurare il capitalismo, anche se in nome del socialismo e sotto l’amministrazione del Partito Comunista. Tuttavia, la tendenza non è inesorabile ed esistono vie per invertire la rotta. Lo sostiene in questo documento Haroldo Dilla Alfonso, già membro dello scomparso gruppo di ricercatori cubani del Centro de Estudios de América, disciolto d’autorità dal Comitato Centrale del PCC nel 1996, nel timore che le sue posizioni politiche prestassero il fianco al tentativo degli Stati Uniti di aprirsi un varco nella società civile cubana grazie al cosiddetto “secondo binario” della legge Helms-Burton. Attualmente, Dilla lavora per la FLACSO (Federación Latino Americana de Ciencias Sociales), nella Repubblica Dominicana. Questo documento è datato aprile 1998. È stato pubblicato nel 1999 dal Socialist Register, pubblicazione annuale della prestigiosa Monthly Review Press di New York, USA. Non appena conosciuto negli ambienti politici cubani, anche se mai pubblicato nell’isola, l’articolo ha suscitato una forte polemica. envío l’ha pubblicato nell’ ottobre 2000, n. 223 dell’edizione in castigliano e n. 231 di quella in inglese.

Traduzione e redazione di Marco Cantarelli.

Con il plauso di tecnocrati ed imprenditori, il governo promuove in termini prioritari quella che è stata definita la riforma economica. Non è stata una scelta fra molte altre opzioni. La disintegrazione del blocco economico dell’Europa dell’Est e successivamente dell’URSS ha significato un colpo severo per l’economia nazionale. Se, fra il 1986 e il 1989, l’economia era rimasta praticamente stagnante, dal 1990 essa ha conosciuto un brusco declino che nel 1993 accumulava una contrazione del prodotto interno lordo (PIL) prossima al 40%. La situazione del settore esterno era ancor più complessa, dal momento che all’improvviso il paese aveva perso l’85% dei suoi mercati tradizionali – di regola, mercati preferenziali –, la quasi totalità delle sue linee di credito a lungo e medio termine, e le sue principali fonti di approvvigionamento tecnologico. Le capacità di importazione dell’economia nazionale si erano ridotte di due terzi.
In questa situazione, l’abituale sentimento antimercantile della dirigenza politica cubana cominciò a cedere spazio all’accettazione pragmatica di una catena di realtà: Cuba doveva inserirsi nel mercato mondiale capitalistico, doveva farlo su basi strettamente competitive e, per questo, doveva ristrutturare molti fondamenti della sua organizzazione economica e sociale. In un memorabile discorso pronunciato il 26 luglio 1993, il presidente cubano riconobbe i limiti del programma immediato: conservare le conquiste rivoluzionarie e aspettare tempi migliori per continuare la costruzione socialista.
Aggiustamenti economici a ritmo sorprendenteAnche se costellato di ostacoli burocratici e di non pochi passi indietro, il processo di liberalizzazione e aggiustamento economico ha seguito un ritmo sorprendente. Già dal 1987 si era iniziato a stimolare gli investimenti stranieri, che nel 1995 ricevettero un’ampia copertura legale con l’approvazione di una specifica legge che regolasse il settore. Nel 1992, venne quindi approvata una sostanziale riforma costituzionale che riconosce la proprietà privata dei mezzi di produzione e apre le porte al decentramento delle imprese statali a partire dall’eliminazione del monopolio statale sul commercio estero. Un anno dopo, nel pieno di una caduta verticale del PIL, i cubani comuni furono autorizzati a possedere dollari e altre monete forti, spendibili in una rete di negozi fino a quel momento riservati agli stranieri residenti nel paese, ai turisti e ad un ridotta élite di cubani. In quello stesso periodo avvenne il trasferimento di una quota assai significativa di terra statale nelle mani di cooperative e, in minor misura, di piccoli contadini. Il lavoro per conto proprio (cioè, autonomo, ndr) nei servizi fu stimolato da una legislazione più flessibile.
Nel 1994, cominciò il processo di aggiustamento del bilancio nazionale, di aumento dei prezzi e di applicazione di imposte e contributi, diretto a ridurre un pesante eccesso di liquidità monetaria. Nella seconda metà di quell’anno, lo Stato autorizzò i mercati liberi di prodotti alimentari, la cui condanna era stata il punto di inizio del processo di rettificazione nel 1986. Già allora, nella stessa misura in cui il paniere minimo sussidiato soffriva progressive riduzioni, una parte sostanziale del consumo popolare era coperta da un mercato libero dollarizzato in cui i prezzi non avevano relazione con i salari pagati alla forza-lavoro. I passi compiuti fra il 1996 e il 1997 consolidarono tutte queste tendenze, con la riorganizzazione della legislazione e delle istituzioni economiche: l’autorizzazione per l’insediamento di zone franche in quattro località del paese, la modifica delle norme doganali, la riorganizzazione del sistema bancario, etc..
Una tendenza non inesorabileLa dirigenza politica cubana ha più volte proclamato i successi della sua politica aperturista in questo duro periodo. In primo luogo, è riuscita a frenare la catastrofica caduta dell’economia e a produrre, dal 1995, una crescita il cui valore accumulato si stima in poco più del 12%. Va anche riconosciuto che in questo modo ha sbarrato la strada alle aspirazioni dell’estrema destra americana e dei suoi soci di Miami di una marcia trionfale su una rivoluzione collassata economicamente. Tenendo conto che tali risultati sono stati ottenuti nel pieno di una forte confrontazione con gli Stati Uniti – il cui blocco economico e politico e la cui politica di ingerenza sono stati catalizzatori della stessa crisi – ad essi va dato un significato storico nazionale ed internazionale.
In secondo luogo, si argomenta ufficialmente, la ripresa è stata raggiunta senza ricorrere alla ortodossia neoliberista, cioè senza sacrificare i programmi di salute pubblica, istruzione e sicurezza sociale, i cui bilanci si sono mantenuti stabili o sono cresciuti – fino a rappresentare, nel complesso, circa il 60% del bilancio nazionale –, e riservando un ruolo distinto allo Stato. Questo merito testimonia l’impegno sociale della rivoluzione.
Ciononostante ed evidentemente, restano valide domande chiave per qualsiasi osservatore o osservatrice che si situino nella sinistra politica, convinti dell’importanza dell’eredità rivoluzionaria cubana. Il processo di liberalizzazione e di aggiustamenti economici a Cuba differisce dai processi in corso in America Latina non solamente per queste ragioni, ma perché a Cuba non si è trattato di una semplice variazione di un codice operativo capitalistico, quanto di una ristrutturazione radicale dell’economia politica, dei modi di regolazione sociale e della produzione ideologico-culturale prevalenti nei decenni precedenti. Trattandosi di qualcosa di così radicale, si è prodotta una trasformazione qualitativa di grande rilevanza: la progressiva colonizzazione mercantile degli ambiti di azione sociale, con la conseguente formulazione di sfide multidimensionali che riguardano il tema centrale della politica: la distribuzione del potere. Se partiamo dalla verità assiomatica che la combinazione di antimperialismo militante con servizi sociali gratuiti non è uguale a socialismo, allora bisogna interrogarsi sulla portata di questi cambiamenti nel sistema cubano, in una prima istanza sul piano sociale – e più specificamente in quello socioclassista – e, quindi, in quello della riarticolazione totale della politica.
L’idea centrale di queste riflessioni è che la riforma sta producendo una ricomposizione socioclassista in funzione di un blocco tecnocratico-imprenditoriale emergente, a detrimento dei settori popolari. Questa tendenza, che conduce ad una restaurazione capitalistica a Cuba – anche se in nome del socialismo e sotto l’amministrazione del Partito Comunista – non è inesorabile. Per questo, l’altra idea centrale è che esistono vie alternative per la continuità socialista, inseparabili dall’articolazione della agenda rivoluzionaria cubana con un progetto alternativo di sinistra su scala internazionale, ciò che implicherebbe un rinnovamento molto sostanziale del sistema politico in funzione di un genuino potere popolare.
30 anni di livellamento e mobilità socialeFra il 1959 e il 1989, la dinamica della società cubana è stata dominata da due tendenze contraddittorie: il livellamento sociale e la mobilità sociale. Il livellamento sociale è stato dominante nei primi anni ed ha avuto il suo punto di partenza nel radicalismo dell’evento rivoluzionario, che ha condotto alla virtuale liquidazione dei settori borghesi e di buona parte della classe media, che sono emigrati o hanno sperimentato un processo di proletarizzazione. La società si è organizzata progressivamente intorno al predominio di forme sociali e statali di proprietà dei mezzi di produzione.
Allo stesso tempo, questo livellamento sociale è stato accompagnato da un processo di mobilità sociale ascendente della maggioranza – particolarmente forte a partire da metà anni ‘70 – sostenuto da programmi statali di creazione di posti di lavoro e di servizi sociali. Solo a mo’ di esempio: nel 1953, il 57% della popolazione abitava in zone urbane, quasi un quarto della stessa era analfabeta e soltanto l’11% aveva un livello medio o superiore di educazione: verso il 1989, l’ultimo anno in cui furono pubblicati gli annuari statistici, Cuba aveva poco più di 10 milioni e mezzo di abitanti, il 73% dei quali viveva in zone urbane, un 38% in città con oltre 100 mila abitanti, l’analfabetismo era ormai un ricordo lontano, oltre metà della popolazione possedeva un livello scolastico superiore ai sei gradi di insegnamento, il numero di tecnici e professionisti si aggirava intorno al mezzo milione, e circa 140 mila persone frequentavano l’insegnamento superiore.
Anche quando questa intensa mobilità sociale conduceva ad una oggettiva differenziazione dei soggetti, ciò non si è riflesso proporzionalmente in un autoriconoscimento delle identità settoriali. Per diversi fattori, si tendeva ad enfatizzare il concetto di pueblo come veicolo sociopolitico della trasformazione sociale e della difesa nazionale. Il sistema politico ha dato conto di questa situazione mediante la sua adesione al modello leninista di organizzazioni settoriali che agivano come cinghie di trasmissione fra la totalità della popolazione e la avanguardia organizzata nel Partito Comunista. Il risultato non poteva essere altro che un’alta concentrazione della autorità politica, che si appoggiava sulle capacità della classe politica rivoluzionaria di esercitare la regolazione sociale in condizioni quasi-monopoliche, in almeno tre sensi.
Utopia sussidiata e una ideologia sicuraPrima di tutto, assegnando le risorse attraverso una pianificazione centralizzata, diretta e singolare, che si è vista potenziata dall’ingresso di Cuba nel blocco economico sovietico agli inizi degli anni ‘70. A partire da allora e fino al 1987, l’economia cubana ha conosciuto una crescita estensiva, con risorse relativamente abbondanti, nel quadro di una economia politica marcata da una produzione poco esigente, una distribuzione equitativa e un consumo sussidiato.
In secondo luogo, il modello leninista di organizzazione politica – lubrificato da un forte consenso politico – si costituiva in un solido meccanismo di controllo politico, non solo rispetto alla repressione delle tendenze antisistema – realmente poco rilevanti già dagli inizi degli anni ‘60 – quanto nella loro prevenzione, nella mobilitazione popolare e nella socializzazione di valori e condotte politiche.
In un terzo e non meno importante senso, la dirigenza politica è stata in grado di produrre un’ideologia credibile e legittimante, che operava come una sorta di paradigma teleologico, sia rispetto ai suoi riferimenti interni che esterni. Si trattava di una ideologia sicura che lasciava assai poco spazio all’incertezza circa la triplice interpellazione sull’esistente, su ciò che è meglio, su ciò che è possibile. Ed era una ideologia coerente, data la stretta interrelazione fra le percezioni delle realtà quotidiane emanate dal tessuto sociale e dal discorso istituzionalizzato, e pure accessibile al cittadino comune nella misura in cui condivideva valori molto amati nella cultura politica nazionale, che enfatizzavano i principi etici come rettori della politica: il patriottismo, l’internazionalismo, l’equità sociale... Il capitalismo, con tutte le sue categorie organiche – borghesia, consumismo, disuguaglianza, mercato –, fu duramente condannato e considerato parte di un passato che non avrebbe avuto una seconda opportunità.
La storia ha rivelato i limiti, il mercato ha fatto il restoCiononostante, questo schema conteneva in sé serie contraddizioni, che derivavano dai suoi dichiarati propositi di socializzazione del potere e dalla progressiva appropriazione di quest’ultimo da parte di uno strato burocratico emergente negli anni ‘60, consolidatosi definitivamente negli anni ‘70 all’ombra del cosiddetto processo di istituzionalizzazione. In termini di sistema, il consolidamento di un ceto burocratrico ha comportato la diffusione di relazioni clientelistico-paternalistiche, il blocco del processo di socializzazione del potere e, di conseguenza, il congelamento dello sviluppo socialista del progetto.
La storia si è incaricata di mostrare sia le virtù sia gli inconvenienti di quel tipo di ordinamento della regolazione sociopolitica. Fino a quando si è trattato di una società con un basso livello di universalizzazione e riflessività sociale, quello schema di regolazione politica ha funzionato con efficacia. Fra gli altri risultati, ha permesso di affrontare con successo il pericolo esterno rappresentato dalla aggressività statunitense, ha agevolato la mobilitazione e la distribuzione equitativa delle risorse disponibili, ha promosso una cultura politica solidale e un vasto tessuto di partecipazione e mobilitazione popolari. Ma, i suoi stessi risultati tessevano la sua obsolescenza, in particolare quando la mobilità e l’alta qualificazione del soggetto sociale hanno cominciato a scontrarsi con la rigidità dei meccanismi di controllo sociopolitico, il che tendeva a produrre disfunzionalità: apatia e anomie politiche.
La riforma economica si è incaricata del resto. Il mercato, attore discreto nei decenni precedenti, ha cominciato a giocare un ruolo significativo nella assegnazione di risorse e nella distribuzione degli scarsi eccedenti. Di conseguenza, nel rimodellamento delle relazioni di potere. In questo contesto, i cubani comuni hanno cominciato a notare con stupore che il futuro non era poi così sicuro come per molti anni gli aveva spiegato il discorso ufficiale.
Cadono i muri e si alza il dibattitoCostanti del discorso ufficiale sono state, da un lato, l’accettazione della convenienza di rinnovare periodicamente le strutture politiche, e dall’altro, le limitazioni delle dimensioni di tali cambiamenti in base ad una serie di fattori che vanno dall’inviolabilità di alcuni precetti – per esempio, il monopartitismo – fino al rifiuto frontale di ogni modifica indotta da pressioni esterne, la qual cosa è perfettamente comprensibile se teniamo in conto la pretesa degli Stati Uniti di modificare il sistema politico cubano fino al punto di consentire loro di recuperare il ruolo di attore decisivo negli affari cubani.
Il 1990 ha segnato un momento significativo nella dinamica del rinnovamento politico a Cuba. Non è stato precisamente un “buon anno”. Dal 1987, l’economia esibiva una persistente tendenza al declino che il processo di rettificazione, proclamato dalla dirigenza rivoluzionaria, non è riuscito a invertire. Le costruzioni ideologiche intorno alla irreversibilità del sistema socialista erano state duramente colpite, dapprima per gli effetti che nell’immaginazione suscitò la perestrojka, quindi dalla per niente edificante caduta del Muro di Berlino. Inoltre, nella seconda metà del 1989 la società cubana fu sconvolta dalla denuncia pubblica di fatti di corruzione che hanno visto protagonisti alti ufficiali dei corpi armati e di sicurezza e alti funzionari dell’apparato civile (caso Ochoa).
La necessità di ricuperare spazi di consenso e rafforzare la legittimità del regime è stata percepita dalla classe politica come un compito improcrastinabile alla vigilia del IV Congresso del Partito Comunista. programmato per il 1991. Di conseguenza, il partito chiamò ad una discussione pubblica volta a auspicare un consenso basato sul riconoscimento della diversità di criteri che può esistere nel popolo e che si rafforzi per mezzo della discussione democratica in seno al Partito e alla Rivoluzione, soprattutto nella ricerca di soluzioni, nell’esame di varianti per raggiungere mete oggettive socioeconomiche, e in generale nella riflessione orientata a perfezionare la società in cui viviamo. Durante vari mesi, la società cubana ha vissuto il dibattito pubblico più libero e democratico della sua storia. Milioni di persone in decine di migliaia di luoghi – scuole, centri lavorativi, comunità – hanno esercitato il loro diritto alla critica, alla proposta di soluzioni o semplicemente alla deliberazione su temi della vita quotidiana e dell’alta politica. Sebbene i risultati di questi dibattiti mai siano stati pubblicati, i diversi rapporti e le osservazioni avanzate testimoniavano un dibattito che indicava un profondo rinnovamento del sistema nel quadro di un impegno fondamentale con le mete socialiste e dell’indipendenza nazionale. La classe politica cubana aveva davanti a sé uno stock informativo sufficiente per tastare lo stato d’animo, le aspirazioni e i punti di vista della maggioranza della popolazione.
L’eco indebolita di un dibattito storicoI cambiamenti politici prodotti negli anni seguenti (1991-92) hanno cercato di tenere conto di queste richieste; tuttavia, le azioni intraprese sono apparse come un’eco indebolita degli intensi dibattiti svolti in precedenza.
In primo luogo, si è prodotta una sostanziale riforma costituzionale che ha modificato circa il 60% dell’articolato e, sebbene buona parte delle modifiche fossero riferite alla sfera economica – sistema di proprietà, diversificazione del commercio estero, etc. – altre hanno riguardato – almeno in termini formali – i nuclei duri della Costituzione del 1976: proclamazione del carattere non confessionale dello Stato e proibizione di ogni tipo di discriminazione contro i credenti; soppressione dei riferimenti al centralismo democratico e all’unità del potere; soppressione della definizione strettamente classista della base sociale dello Stato; la convocazione di elezioni dirette per i seggi parlamentari; etc.. La nuova legge elettorale risponde a quest’ultima proposta e, anche se ha avuto la virtù di ribadire la non ingerenza diretta del Partito Comunista nella nomina di candidati e nelle votazioni, nonché di rafforzare il ruolo delle organizzazioni sociali e di massa in tali funzioni, essa ha limitato la sua portata democratica nel restringere il principio competitivo che era stato la pietra angolare della robustezza delle elezioni locali. Un passo positivo è stata la creazione di nuove strutture sottomunicipali – i consigli popolari –, che hanno avuto un ruolo molto importante nel mobilitare le risorse locali, nel processo decisionale a livello locale e, in alcuni casi, nella elaborazione di progetti comunitari con forte vocazione partecipativa e autogestita.
Alla fine, ciò che alcuni settori avevano previsto come l’augurabile inizio della costruzione di una democrazia pluralista e partecipativa che desse risposta politica alle nuove condizioni sociali in funzione della continuità socialista, si è limitato ad una serie di cambiamenti puntuali più interessati alla governabilità che alla democrazia.
Blocco tecnocratico e settori popolariLa questione è piuttosto complessa e politicamente pericolosa. Non si tratta semplicemente di valutare fino a dove i cambiamenti operati nel sistema politico formale siano più o meno democratici. Ciò di cui si tratta è calibrare le sue qualità a partire dal riconoscimento che la politica a Cuba sta cambiando ad un ritmo vertiginoso anche quando questo cambiamento non si esprime in ambito formale. Ciò di cui si tratta è che la governabilità che si pretende di garantire è sempre più soggetta ad una forte alterazione dei rapporti di potere nel nuovo modello di accumulazione.
Detto in altre parole: se la politica non è solamente – nemmeno principalmente – una questione istituzionale o normativa ma, soprattutto, l’interazione degli attori e dei soggetti per il controllo dei meccanismi di assegnazione di risorse e valori, allora è possibile affermare che la politica a Cuba comincia a soffrire uno scivolamento progressivo in funzione delle esigenze del nuovo modello di accumulazione, la cui espressione più nitida si dà nella ricostituzione delle reti sociali di potere. Di conseguenza, i cambiamenti formali che si possono realizzare oggi saranno molto differenti da quelli che si potranno fare in futuro, quando i rapporti fra i poteri saranno mutati significativamente.
Una breve analisi del processo di ristrutturazione sociale indicherebbe una doppia tendenza: il rafforzamento di un blocco tecnocratico imprenditoriale legato proficuamente al mercato e passibile di erigersi in blocco sociale egemonico; al tempo stesso, la frammentazione e l’indebolimento dei settori popolari.
Le nuove élites fra compañeros e investitoriIn quest’ottica, il risultato sociale più eclatante del processo di apertura e riforma economica è stata l’incipiente formazione di un nuovo blocco sociale – che chiameremo tecnocratico-imprenditoriale –, in cui è possibile distinguere tre componenti fondamentali.
Una prima componente di questo blocco emergente si situa nell’ambito degli investimenti stranieri. A Cuba non si pubblicano statistiche ufficiali dal 1989, per cui ogni analisi si poggia su studi parziali e osservazioni che sempre lasciano significativo spazio al dubbio.Tuttavia, secondo le cifre disponibili nel 1990, il numero di investitori stranieri non superava allora il paio di dozzine. Nel 1994, esistevano già 176 associazioni con capitale straniero, per un totale di 1,5 miliardi di dollari. Gli investimenti provenivano da 36 paesi, distribuiti in 26 rami economici. Al tempo stesso, erano presenti a Cuba circa 400 firme commerciali. Questi dati furono divulgati alla XII Fiera Internazionale di La Habana. Nell’inaugurare la Fiera, un alto dirigente politico disse agli imprenditori ivi riuniti: Vi offriamo un paese ordinato. Una politica di apertura agli investimenti di capitale coerente ed irreversibile. Una infrastruttura economica coerente ed estesa. Un settore produttivo in via di cambiamento verso l’efficienza. Un popolo lavoratore ed abnegato con un alto livello educativo e tecnico. Una società che non conosce il terrorismo, né la droga. Vi offriamo una nazione sovrana e un governo onesto e incorruttibile.
A fine 1996, si registravano 260 investimenti stranieri, alcuni dei quali cominciavano a insediarsi nelle zone franche industriali create da poco. Quell’anno, si contava ormai con la presenza di circa 800 rappresentanze di firme straniere. Siccome si tratta regolarmente di associazioni con lo Stato, tale settore è strettamente legato ad una fascia di imprenditori e amministratori cubani che condividono con gli imprenditori e amministratori stranieri esperienze, modi di vita e aspirazioni sostanzialmente differenti dal resto della popolazione cubana.
La seconda componente di questo blocco emergente è formata dai dirigenti delle imprese statali che hanno raggiunto posizioni di vantaggio nel mercato mondiale e, di conseguenza, quote superiori di autonomia. Queste nuove attribuzioni sono incompatibili con la tradizionale figura dell’amministratore di beni pubblici nel quadro di una economia centralmente pianificata, sempre chiuso nella tragica triade del non sapere, non potere e non volere. Al suo posto, emerge a Cuba un nuovo tipo di imprenditore nazionale, più preoccupato per la massimizzazione del profitto che per altre considerazioni politiche. Il numero di imprese appartenenti a questa fascia continuerà ad aumentare con il trascorso della riforma.
Parla la banca: le nuove fortuneUna terza componente – potenziale – di questo blocco è rappresentata da quanti – contadini abbienti, intermediari commerciali, fornitori di servizi, etc. – hanno messo da parte forti somme monetarie e altri beni mediante la speculazione nel mercato nero, spesso a scapito delle risorse statali. Dal momento che la maggior parte di queste fortune ha origine illecita, è impossibile quantificare il potenziale economico di questo settore. Ma è possibile una approssimazione alle sue dimensioni mediante l’analisi della struttura dei conti correnti, dove si deposita circa il 60% della liquidità monetaria, che ha conosciuto negli ultimi anni una preoccupante tendenza alla concentrazione. Secondo i rapporti del Banco Nacional de Cuba e di altre istanze ufficiali, verso la fine del 1994 nel 14,1% dei conti era depositato il 77,8% dei risparmi. Un anno dopo, il 13,1% dei conti captava l’83,7% dei risparmi. Nel 1996, si confermava la tendenza: il 12,8%, poco più di 600 mila conti, registrava da solo l’84,7% dei depositi, pari ad oltre 6,6 miliardi di pesos cubani. Ancor più significativo, forse, è il fatto che nel 1996, al 2,7% dei conti corrispondeva il 43,8% dei risparmi. Rispetto al 1995, nel 1996, i conti di risparmio fino a 20 mila pesos avevano registrato una diminuzione di circa 300 milioni di pesos, mentre quelli maggiori di 20 mila pesos erano aumentati di 74,1 milioni di pesos. Nel 1996, i conti bancari personali in “moneta dura” erano soltanto 4.500 e concentravano 9,5 milioni di dollari.
Con la liberalizzazione dei mercati agricoli e dei mercati dei prodotti industriali, così come con l’apertura al lavoro per conto proprio, questo settore non solo è cresciuto e ha “lavato” le proprie fortune, ma ha guadagnato anche un controllo dei circuiti del mercato interno. In un futuro non lontano, questo settore investirà nella piccola e media impresa e contratterà con il settore formale dell’economia, il che amplierà le sue possibilità di accumulazione. Non è difficile scoprire che questi tre gruppi emergenti – in particolare, i primi due – provengono dalla burocrazia tradizionale – civile o militare – e dalle loro famiglie, anche se non mancano giovani tecnocrati emersi grazie alle politiche economiche attuali. Nel terzo gruppo si possono trovare evidenti connessioni fra gli affari privati più prosperi – ristoranti e affitto di case per turisti – e alti funzionari in pensione o loro familiari, giacché questi affari richiedono case confortevoli situate in luoghi centrali, quelle che negli anni precedenti la crisi erano state assegnate dallo Stato a quel tipo di funzionari.
Salariati e operai: ridotti e indebolitiPrima del 1989, i lavoratori cubani erano una massa relativamente omogenea. In quell’anno, il 94% della forza-lavoro impiegata nel settore civile, circa 3,5 milioni di persone, era composto di salariati dell’economia statale, organizzati sindacalmente nella loro stragrande maggioranza, e protetti da un codice del lavoro assai paternalista. I lavoratori per conto proprio erano poche migliaia. Il campesinado, indipendente o cooperativo, era numericamente esiguo e pativa una progressiva riduzione. La crisi e il processo di aggiustamento e liberalizzazione hanno via via cambiato questo scenario, e sostanzialmente. In primo luogo, bisogna notare i suoi effetti sui settori salariati e, in particolare, sulla classe operaia. Tali settori hanno sperimentato una riduzione in termini quantitativi, a conseguenza delle nuove opportunità di lavori più lucrativi nel settore privato o cooperativo, e dello stesso processo di riduzione dei posti di lavoro eccedenti nelle imprese statali. Nel 1996, questo settore riuniva il 78% della popolazione economicamente attiva, un 16% in meno di otto anni prima.
Non meno notevole è stato l’indebolimento economico a conseguenza della dollarizzazione dei prezzi di parte sostanziale dei beni di consumo e dei servizi, e della permanenza di salari disegnati per un consumo sussidiato. In questo senso, i settori salariati statali si sono trovati sottomessi ad un regime di supersfruttamento, nella stessa misura in cui il prezzo della loro forza-lavoro era inferiore al costo della sua riproduzione. Secondo calcoli non ufficiali, una famiglia cubana di quattro persone, in cui almeno due lavorano e ricevono un salario medio, necessiterebbe il doppio delle entrate monetarie che percepisce per garantire un consumo minimo di alimenti, prodotti igienici e servizi.
Sopravvivendo, “svoltando”, cambiando...Nella vita reale questa drammatica situazione è alleviata in diversi modi. Circa il 20% dei salariati, situati in aree privilegiate dalla nuova dinamica economica – turismo, tecnologie di punta, industrie esportatrici –, riceve entrate monetarie o prodotti che si aggiungono al salario ufficiale. In questo modo, il capitale internazionale starebbe generando un virtuale rimodellamento della classe operaia e dei salariati in generale. In altri casi, questi stessi lavoratori sono riusciti a inserirsi in attività autonome (cuentapropistas), sia in maniera formale – circa il 26% delle licenze concesse nel 1996 corrispondevano a lavoratori statali – o in maniera informale. È anche frequente il ricorso ad altri espedienti non legati al lavoro, con la conseguente proliferazione di condotte anomiche. È il caso delle rimesse inviate dai familiari emigrati. Altro caso, non meno rilevante, è la corruzione. Non è necessario soffermarci a valutare le implicazioni etiche ed ideologiche di questi due modi di sopravvivenza e di altri.
Un altra tendenza sociale significativa è la proliferazione di settori produttivi cooperativi e individuali non salariati. In un primo piano vanno segnalati i piccoli contadini individuali e i produttori agricoli associati in cooperative che, per diverse ragioni, non hanno ottenuto un buon livello di consulenza. Dalla vittoria rivoluzionaria in poi, questi settori venivano sperimentando una graduale diminuzione in termini assoluti, di modo che se nel 1970 costituivano l’11% degli addetti nel settore civile, nel 1989 erano solo il 5%. Con la creazione nel 1993 delle Unità di Base di Produzione Cooperativa (UBPC), questa tendenza ha sperimentato una brusca inversione e, sebbene non esistano statistiche ufficiali, si calcola che circa 30 mila persone siano passate ad ingrossare il settore dei cooperativisti agricoli, facendosi carico del 30% della terra agricola nazionale. Altre 50 mila persone hanno ricevuto terre a titolo individuale.
Cuentapropistas: in ascesa, ma instabiliUn altro settore che ha mostrato considerevole espansione è stato quello dei lavoratori per conto proprio, principalmente nelle aree urbani. Il lavoro per conto proprio non era sconosciuto alla società cubana. Negli anni ‘70, questo tipo di attività aveva raggiunto un certo livello di espansione, che è stato però tagliato fra il 1986 e il 1989 quando il cosiddetto proceso de rectificación lo considerò indesiderabile per i fini socialisti. Nell’estate del 1993, il lavoro per conto proprio è stato nuovamente riabilitato come una forma di generare posti di lavoro e limitare le dimensioni del mercato nero.
Anche se nel cuentapropismo si nascondono vere fortune che hanno raggiunto le migliori posizioni e affrontano con successo l’aumento delle imposte stabilito dal governo, l’immensa maggioranza delle attività consentite dalla nuova legge è composta di piccole unità individuali o familiari il cui ingresso netto, anche quando superano quello percepito dalla maggioranza dei lavoratori del settore formale, non costituisce una base per l’accumulazione.
Sebbene le cifre ufficiali non riflettano la vera dinamica di questo processo, nel febbraio 1994, esistevano nel paese 142 mila cuentapropistas legalizzati, cifra che era salita in giugno a 160 mila e a 208.346 nel gennaio 1996. Nel 1997 si riportava una diminuzione significativa: qualcosa di più di 160 mila persone. Fino al 1997, erano state presentate 401.847 richieste di licenza, mentre avevano abbandonato l’attività circa 158.597 persone, il che testimonia l’alta instabilità nel settore. Soltanto lo 0,9% delle attività era impegnato nelle aree più lucrative – paladares o ristoranti privati – mentre il 27% vantava piccoli punti vendita di alimenti e bevande non alcoliche.
Allora, il 26% dei lavoratori autonomi erano, allo stesso tempo, lavoratori del settore formale; il 30% erano disoccupati; il 18% casalinghe – eufemismo che frequentemente denota la donna disoccupata –; il resto, pensionati. Il 73% dei detentori di licenze erano uomini: ciò porta a pensare ad un ruolo subordinato della donna a sostegno dell’attività economica familiare. Un dato interessante è che l’80% dei cuentapropistas legalizzati vantava il nono grado di istruzione.
I dati sulle persone impegnate nel cuentapropismo vanno presi con cautela. Come è frequente in questo segmento del mercato lavorativo, dietro ogni lavoratore legalmente iscritto e che compie i suoi doveri fiscali, esistono varie persone che contribuiscono con il loro lavoro, in maniera più o meno stabile, all’attività privata. Ciò potrebbe moltiplicare per varie volte la cifra reale di cubani le cui entrate principali provengono dal lavoro per conto proprio.
Una caratteristica ormai strutturaleLa società cubana comincia a transitare da una situazione di pieno impiego – legittimamente considerata come una conquista rivoluzionaria, anche quando fosse il prezzo di una notevole inefficienza economica – ad un’altra situazione in cui la disoccupazione è diventata una caratteristica strutturale. Nel 1994, la disoccupazione aperta arrivava all’8,5% della popolazione economicamente attiva e nel 1997 era al 7%, cosa che alcuni osservatori hanno interpretato come un segnale regressivo positivo.
Non si tratta di una tendenza decrescente irreversibile. L’amministrazione della disoccupazione da parte dello Stato è stata resa possibile dalla applicazione molto graduale, quando non il rinvio in molti settori, della razionalizzazione delle liste di occupati nelle imprese statali. Nel quadro di questo gradualismo, il mercato del lavoro ha offerto opzioni nuove di lavoro, in particolare nell’emergente settore privato. Si calcola che il 70% della riduzione dei posti di lavoro nello Stato sia stata assorbita dal lavoro autonomo.
Un’eventuale autorizzazione della piccola e media impresa aprirebbe altre valvole. Ma, siccome non si tratta di una opportunità illimitata, la popolazione disoccupata continuerà a crescere nei prossimi anni, anche quando l’economia registrasse crescite effettive, proprio perché una precondizione per la riproduzione economica nel nuovo modello di accumulazione è prescindere dalla forza-lavoro in eccedenza.
La disoccupazione ha colpito specialmente i giovani minori di 30 anni (il 60% dei disoccupati) e le donne. In qualsiasi calcolo, bisogna tenere conto che i dati ufficiali sulla disoccupazione sono sempre inferiori alle dimensioni reali del fenomeno, dal momento che si riferiscono solo alle persone che hanno cercato lavoro negli uffici appositi, ciò che però fa solo una parte della popolazione disoccupata. Nemmeno esistono dati sulla sottoccupazione.
Ripensare il futuro da sinistraRipensare il futuro cubano da una prospettiva di sinistra è una necessità che supera il quadro nazionale. La resistenza del popolo cubano per difendere la sua indipendenza nazionale e le sue conquiste sociali suscita l’ammirazione del mondo intero e motiva un movimento di solidarietà di grande significato morale e politico. L’intransigenza antimperialista della dirigenza storica cubana non è meno degna di riconoscenza. Per tutti noi, a Cuba, ciò è molto importante, ma non sufficiente.
Cuba offre un’altra opportunità: essere parte di un progetto anticapitalista in formazione che, anche quando abbia differenti concretizzazioni nazionali, solo potrà essere viabile su scala internazionale. Ma per diventarlo, Cuba non ha bisogno soltanto di salvaguardare le conquiste sociali e l’indipendenza nazionale ma, soprattutto, di continuare ad avanzare nella gestazione di un nuovo concetto dello sviluppo e della politica, nella creazione di un genuino poder popular, di una cultura politica permeata dal senso di solidarietà e cooperazione, di un soggetto sociale educato e portatore di valori organici all’obiettivo socialista e di una classe politica con segmenti importanti dotati del senso di responsabilità e alta sensibilità sociale. Per ottenere tutto ciò abbondano gli ostacoli. I più importanti sono precisamente le condizioni specialmente difficili che il paese affronta per la sua ripresa economica e la schiacciante asimmetria di capacità che ha di fronte al mercato mondiale capitalista, realtà rese più acute dagli effetti che l’immorale blocco degli Stati Uniti produce non solo sull’economia ma anche sulla politica.
Unità nazionale con egemonia popolareCertificata l’inviabilità dell’autarchia, l’inserimento di Cuba nel mercato mondiale capitalista è una condizione indispensabile per la sopravvivenza nazionale. Ma, ciò non implica l’accettazione fatalista delle regole del gioco della cosiddetta globalizzazione e, meno ancora, rende impossibili cammini alternativi che modifichino sostanzialmente gli scenari esistenti. Tuttavia, un giudizio realistico non può ovviare che, qualunque siano le prevenzioni adottate, l’inserimento produrrà sempre un cambiamento drammatico nei rapporti di potere e nel codice operativo dello Stato in funzione del processo di accumulazione.
Questa linea di analisi ci conduce alla necessità di un ridisegno della politica, che deve essere animata da tre principi fondamentali, contradditori ma non escludenti. In primo luogo, essa deve garantire l’unità della nazione di fronte all’ingerenza imperialista. In secondo luogo, deve rafforzare il soggetto popolare e le sue organizzazioni, comprendendo la complessità crescente del “popolo”. In terzo luogo, deve dare conto della diversità sociale sulla base dell’egemonia popolare e della subordinazione negoziata dei settori emergenti a questa egemonia. Si tratterebbe di una paradigma della politica socialista che riconosca l’esistenza di contraddizioni e conflitti in una società complessa e che fornisca i meccanismi per la loro soluzione in maniera democratica, a beneficio dell’egemonia popolare e dell’indipendenza nazionale.
Il rafforzamento del soggetto popolare passa inevitabilmente per l’autonomia delle sue organizzazioni. Lo schema delle cinghie di trasmissione è risultato positivo per i fini rivoluzionari in condizioni storiche che ormai non esistono più. Nelle nuove condizioni, le organizzazioni popolari dovranno assumere spazi contradditori e persino entrare in contraddizione con le politiche dettate dallo Stato.
La sfida del femminismo e del sindacalismoIn primo luogo, si tratterebbe di stimolare le organizzazioni settoriali già esistenti. Per esempio, la Federazione di Donne Cubane, un’istituzione che nella sua storia ha svolto un ruolo significativo nella difesa della mobilità sociale delle donne, deve tornare ad assumere il proprio ruolo a partire da un punto di vista femminista che sfidi le strutture di oppressione di genere che permeano la società cubana e che possono consolidarsi nel futuro al calore delle esigenze di un modello di accumulazione che ha uno dei suoi pilastri nel degrado della forza lavoro femminile: prostituzione, maquilas, etc..
Qualcosa di simile potrebbe dirsi dei sindacati. Fino a quando hanno agito in un’economia sussidiata, protetti da un codice del lavoro paternalista, i sindacati hanno potuto conservare la propria legittimità, pur esercitando ruoli importanti nella vita lavorativa. Ma, nella stessa misura in cui il nuovo modello di accumulazione impone lo sfruttamento intensivo della forza-lavoro ed eleva il costo della sua riproduzione, lo spazio lavorativo si converte in una nuova sintesi di alienazione e contraddizioni, la cui rappresentanza potrà essere assunta solo da un sindacalismo militante, in grado di usare legalmente ogni tipo di mezzi di pressione, compreso lo sciopero.
Ciò ha un costo. Per esempio, un sindacato più belligerante potrebbe suscitare riserve in un capitale straniero poco sofisticato che cerca di massimizzare i profitti nel più breve tempo possibile. Si tratta di un costo imprescindibile. E, comunque sia, non necessariamente è questo tipo di capitale quello che va attratto in un paese che ha “attrattivi” economici più sofisticati di una manodopera a basso costo e docile.
A mo’ di illustrazione valga questo aneddoto: quando si è insediato il primo hotel della catena Meliá a Cuba, i gerenti spagnoli si sono negati inizialmente ad accettare un sindacato. Secondo un vicegerente cubano, alla fine, gli spagnoli lo hanno accettato ritenendo che un sindacato ben strutturato costituisce il motore di qualsiasi attività. Pur ammettendo che questo consenso risulti inquietante, è importante annotare che i sindacati sono stati l’organizzazione settoriale cubana che ha mostrato maggiore coraggio e originalità politica di fronte all’aggiustamento e alla riforma.
Società civile: antichi freni e nuove ragioniIn secondo luogo, il potenziale delle organizzazioni popolari nella Cuba attuale non si esaurisce nelle tradizionali organizzazioni sociali e di massa. Da più di cinque anni, la società cubana assiste alla nascita di numerose associazioni, alcune delle quali con forte vocazione pubblica, il cui denominatore comune è un impegno fondamentale per un socialismo rinnovato e l’indipendenza nazionale. Fra queste nuove associazioni vi sono organizzazioni non governative, istituzioni accademiche, movimento comunitari, etc.. Nel complesso, hanno promosso interessanti dibattiti su una nuova visione dello sviluppo, affrontando temi come l’ambiente, il genere, la participazione popolare, le culture locali, etc.. In particolare, i movimenti comunitari hanno cercato nella pratica di offrire una alternativa di sviluppo e convivenza a partire dalla comunità, per superare la tradizionale antinomia Mercato-Stato che ha saturato la discussione pubblica a Cuba per anni.
Tutti questi movimenti hanno sofferto dei limiti burocratici, la cui massima espressione è stato un documento dell’alta gerarchia del partito, divulgato nel 1996, in cui si dichiarava l’intenzione di quest’ultimo di amministrare la dinamica di queste associazioni configurando una società civile socialista i cui parametri di inclusione – o di esclusione – mai sono stati definiti e, di conseguenza sono rimasti soggetti all’arbitrio degli organi burocratici. L’argomentazione ufficiale che ha giustificato tale azione, così come altre attitudini restrittive verso l’autonomia delle organizzazioni, si basa sull’opinione che la strategia di ingerenza statunitense punti fermamente ad utilizzare la società civile cubana come una via per minare il sistema, ripetendo a Cuba le formule usate in alcuni paesi dell’Est europeo. Questa prospettiva ingerenzista, costante dal 1980, è diventata esplicita nella legge Torricelli (1992) e nella legge Helms-Burton (1996) che hanno ipotizzato un secondo binario di operazioni dirette alla cooptazione di settori sociali e politici specifici, comprese, anche se non esclusivamente, componenti della società civile.
È perfettamente comprensibile che lo Stato cubano cerchi di proteggere la sovranità nazionale dai tentativi sovversivi statunitensi e che, per farlo, applichi filtri e “lucchetti” politici preventivi.
Ma potrebbe apparire paradossale che lo faccia imponendo limiti e controlli burocratici a organizzazioni che avevano espresso a parole e nei fatti un rifiuto così netto delle pretese ingerenziste statunitensi come quello espresso dallo Stato. Forse, la reazione statale contro la “società civile” non si esprime solo nella gelosia patriottica della classe politica o la tradizionale reticenza della burocrazia ad ammettere competenze legittime nel controllo sociale, ma anche su una buona disposizione ad offrire al capitale internazionale “un paese ordinato”, incompatibile con l’esistenza di organizzazioni autonome e belligeranti.
Creare spazi di socialismo e di democraziaIl rafforzamento del soggetto popolare non può limitarsi alla rivitalizzazione delle organizzazioni esistenti, ma richiede la nascita di associazioni organiche ai nuovi attori, oggi subordinati nel nuovo processo di accumulazione.
Un primo caso paradigmatico è quello delle migliaia di lavoratori per conto proprio. La posizione intermedia di questo settore nella struttura sociale emergente condiziona oggettivamente la sua ambivalenza politica in relazione alla continuità socialista. In maggioranza, questi lavoratori dipendono soprattutto dal proprio lavoro e, sebbene nell’attuale e anomala congiuntura economica le loro entrate siano relativamente alte, essi non sono in grado di accumulare. La qualità della loro vita continua a dipendere in buona misura dalla fornitura di servizi sociali statali e dall’impegno statale a favore del benessere pubblico. Ma, al tempo stesso, sempre più educati all’azione individuale, essi tendono a limitare la propria cosmovisione al regno più meschino dei profitti personali relativi a quelli che oggettivamente sono i “loro affari”. Nonché a percepire certi obblighi sociali – per esempio, il pagamento di imposte – come esazioni ingiustificate che sbarrano la strada a più alti livelli di arricchimento. Il no pronunciato dall’ultimo congresso del Partito Comunista (1997) alla formazione di piccole e medie imprese ha scavato di fatto un fossato rispetto a ciò che poteva significare un incentivo alla formazione di cooperative e altre associazioni di produttori di servizi.
Un caso simile, per le sue implicazioni politiche, è quello dei lavoratori cooperativisti agricoli, principalmente quelli delle UBPC. Le UBPC sono state un tentativo statale di ottenere in forma decentrata migliori rendimenti agricoli. Un assai significativo 20% di terra statale è stata ceduta in proprietà a gruppi di lavoratori, il che ha rappresentato il più audace passo nella socializzazione dato dalla rivoluzione cubana negli ultimi lustri. Tuttavia, bisogna riconoscere che alle UBPC è mancata, sin dall’inizio, una chiara prospettiva politica, il che, cinque anni dopo quella audacia, marca ancora le UBPC con un marchio utilitaristico e immediatista. Le UBPC sono nate burocraticamente limitate, non contando su un libero accesso al mercato ed essendo soggette all’andirivieni amministrativo delle imprese statali. Da fine 1994, il loro accesso al mercato è stato consentito, suscitando un loro parziale dinamismo. Ma, senza altre azioni politiche, tale dinamismo potrebbe prendere una via che freni il loro ruolo potenziale di spazi di proprietà socialista con democrazia interna. Evitare questo corso negativo non dipenderà dal successo economico, anche se esso è indispensabile, ma dal disegno politico generale in cui queste cooperative si inseriscano.
Una nuova forma di pensare e fare politicaI lavoratori indipendenti – cuentapropistas, cooperativisti o vincolati in futuro alla piccola e media impresa – si rivelano anche una sfida per una classe politica abituata al controllo verticistico e centralizzato. Le attuali politiche hanno puntato a far aderire questi lavoratori ai sindacati esistenti, creando evidenti disfunzioni sia per i sindacati che per i lavoratori autonomi e soci di cooperative; nei fatti, l’appello ha sortito scarsi risultati. Tutto fa pensare che sarebbe più ragionevole stimolare l’organizzazione di questi settori in organizzazioni proprie in grado di rappresentare i propri interessi specifici dentro il sistema, anche quando questo implichi una nuova forma di pensare e fare politica.
Solo a partire dal potenziamento del soggetto popolare nelle differenti sfere sociopolitiche è possibile pensare ad un disegno economico alternativo che coniughi forme di economia popolare con meccanismi di cogestione e autogestione a partire da un modello imprenditoriale decentrato, sia di proprietà statale, mista o privata.
Al tempo stesso, esso dovrebbe prevedere altre forme organizzative di consumatori che, protetti da una legislazione coerente, possano contrastare l’effetto depredatorio del mercato – sia esso controllato dal settore privato o statale – sui livelli di consumo della popolazione.
Definisco l’economia popolare come l’insieme di attività produttive o fornitrici di servizi realizzate da soggetti individuali o collettivi che dipendono fondamentalmente per la loro riproduzione dalla continua realizzazione del loro capitale di lavoro, il cui carattere distintivo sia la autoregolazione basata su principi solidaristici e associativi.
Pochi che esibiscono la propria fortuna personaleQuesto stesso disegno politico deve prevedere uno spazio necessario, ma subordinato, del settore tecnocratico-imprenditoriale. L’importanza di questi settori emergenti non sta nella loro quantità. In termini numerici, parliamo di poche migliaia di persone i cui livelli nella scala sociale sono ancora instabili, privi di strutture organizzative proprie e che non hanno sviluppato una coscienza settoriale coerente.
L’importanza di tale settore è qualitativa, soprattutto per il suo posizionamento nelle aree più dinamiche dell’economia, il che li dota di “beni politici interscambiabili” di fronte alla classe politica e alla burocrazia tradizionale. Si tratta di una relazione biunivoca complementare, anche se non esente di contraddizioni, in cui i settori emergenti forniscono alla élite tradizionale degli eccedenti economici per la riproduzione del progetto politico ed in cui, al tempo stesso, la élite politica garantisce la pace sociale che risulta imprescindibile per il nuovo modello di accumulazione. In ultima istanza, non dobbiamo dimenticare che i nuovi tecnocrati e imprenditori provengono dal seno della burocrazia tradizionale, o si sono formati nelle sue politiche, ciò che li colloca in una rete assai privilegiata di relazioni personali e di accesso a risorse informative, materiali, etc..
La rilevanza qualitativa di questo settore si evidenzia anche nel possesso di un’alta capacità di produzione ideologica e culturale, per la qual cosa solo necessitano di mostrarsi alla società come simbolo di successo personale nel mercato. Questa “esibizione” sociale ha avuto un impatto negli atteggiamenti e nelle condotte di segmenti significativi dei settori popolari, per i quali ciò che prima si percepiva come una devianza dalla norma – accomodamento, corruzione o marginalità – oggi è valutato come metro del successo o semplicemente come resistenza legittima nella ricerca della sopravvivenza. Il paradigma di questo settore non potrebbe essere altro che un modello cinese edulcorato, loquace rispetto ai suoi successi economici e consumistici ma che tace sui suoi deprimenti risultati sociali, politici, culturali ed ecologici.
Le radici di una mafia tropicaleÈ in questi settori che radica la base sociale reale di un termidoro cubano (il riferimento è all’undicesimo mese del calendario introdotto dalla rivoluzione francese, corrispondente al periodo 19 luglio / 17 agosto del calendario gregoriano; nei giorni 9 e 10 del termidoro, cioè il 27 e 28 luglio 1794, un colpo di Stato rovesciò il governo giacobino, eliminando Robespierre e i suoi seguaci, ndr), non negli insignificanti gruppi dissidenti con cui il sistema ha appreso a convivere senza grandi fastidi. Sta in questi settori emergenti ciò che potrebbe rappresentare un problema maggiore in futuro: la radice di una mafia tropicale che ormai comincia a mostrare le sue influenze.
I principali limiti perché questi settori si manifestino come blocco egemonico stanno nella persistenza di un’alleanza delle classi popolari con la dirigenza politica sorta dall’evento rivoluzionario. I segnali di cautela mostrati dalla dirigenza politica – e, particolarmente, da quanti formano la sua dirigenza storica – di fronte all’avanzata del mercato e della riforma, non importa ora la valutazione tecnica che meritino, esprimono la permanenza di questo impegno sociale di base, perlopiù non negoziabile di fronte alla necessità di mantenere l’unità nazionale di fronte alla ostilità nordamericana.
Di conseguenza, lo stato attuale della riforma economica a Cuba presenta ancora una forte separatezza dei settori economici e una realtà di mercati frammentati, la qual cosa rende difficili le relazioni orizzontali fra i diversi componenti e, persino, fra i membri di ogni settore. Non è difficile avvertire, tuttavia, che questo condizionamento strutturale sarà diluito dalla forza del mercato se il blocco popolare non si rinnova e se non si proietta come una forza autonoma e con posizionamenti politici propri. In termini formali, questo rinnovamento implicherebbe cambiamenti istituzionali, normativi e procedurali, nessuno dei quali ha a che vedere con le esigenze degli Stati Uniti a favore di una democratizzazione liberale del sistema cubano.
Spazio locale: primo anelloUn primo anello di questa catena di rinnovamento sarebbe un sottosistema municipale più efficace e più partecipativo, come spazio primario di concertazione di interessi e di negoziazione delle politiche. Gli spazi locali cubani hanno smesso di essere semplici vettori di uno sviluppo regionale equilibrato e centralmente pianificato. Gli spazi locali cominciano a sperimentare sviluppi desiguali a seconda del loro posizionamento di fronte alle dinamiche economiche tracciate dal mercato mondiale. Poli turistici, aree minerarie, zone franche industriali, sono le nuove variabili che frammentano lo spazio nazionale e diversificano gli spazi locali. Le società locali cubane si stanno trasformando con l’apparizione di agenti economici e sociali generatori di nuove relazioni di potere. In questo contesto resta poco spazio per la tradizionale forma di alimentazione del processo decisionale plasmato nel piano economico centralizzato: l’aggregrazione di domande della popolazione trasmesse attraverso meccanismi verticalistici. In uno scenario di negoziazioni, il piano sarà indicativo, decentrato e plurale. Nello spazio locale cubano sta il primo momento di una pianificazione democratica.
Ridefinire gli organi rappresentativiA livello macro, si impone una ridefinizione della maniera in cui si costituiscono gli organi governativi rappresentativi ai diversi livelli. Fino al momento ciò ha funzionato solo a partire dal voto popolare organizzato per territori, nel caso delle istanze provinciali e nazionali, dove non esiste spazio per elezioni competitive, la qual cosa ha inciso, da un lato, nella mancata rappresentanza nei governi locali di gruppi di lavoratori situati nel territorio, o nella sottorappresentazione di settori emarginati, come le donne. D’altro lato, ha eroso le capacità deliberative delle istituzioni rappresentative o ha portato a ricorrere a finzioni legali volte ad assicurare questa rappresentazione dove sia imprenscindibile.
Un nuovo disegno suggerirebbe la composizione di queste istituzioni a partire da fonti differenti che soddisfino le esigenze della rappresentazione di territori, di settori e di interessi. Sempre, ovviamente, passando per la validazione reale del precetto legale che conferisce agli organi rappresentativi i maggiori poteri statali in ogni territorio. Ad oggi, gli organi rappresentativi si sono impegnati poco a livello legislativo, si sono riuniti in generale per non più di quattro giorni all’anno ed hanno come risultato un inquietante unanimità di voto nella totalità dei temi che si discutono.
Diritti civili e politici: una sfidaNon meno rilevante è la creazione di uno scenario di libertà, diritti e doveri civili, chiaramente consacrati dalla legge e sostenuti istituzionalmente. La società rivoluzionaria cubana è stata prodiga nell’elaborazione di una lista di diritti sociali ed economici che non possono diluirsi nella “magia del mercato” e devono essere difesi come conquiste rivoluzionarie genuine. Ma, al tempo stesso, l’enunciato dei diritti politici e civili è stato debole, impreciso e soggetto alla amministrazione dello Stato. Ciò ha prodotto lamentevoli arbitrarietà a scapito dei diritti individuali e collettivi, del dibattito pubblico, e delle idee che stonano in uno scenario in cui domina l’affanno di dare alla politica un senso monolitico. Varrebbe la pena di ricordare come il marxismo classico descriveva la società alternativa al capitalismo: una associazione in cui il libero sviluppo di ognuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti.
Il Partito Comunista di Cuba non potrebbe restare estraneo a tutte queste trasformazioni. Di fatto, dovrebbe essere il protagonista delle stesse. Solo il Partito, organizzazione centrale del sistema politico, con oltre mezzo milione di membri educati politicamente in un impegno fondamentale con il socialismo, può procedere a impulsare i cambiamenti imprescindibili con minori rischi di rottura e al fine di consolidare un genuino poder popular.
Ciò implicherebbe la trasformazione dello stesso Partito Comunista. Si tratterebbe di trovare la forma più adeguata di organizzarsi e funzionare d’accordo alle differenze di interessi che sarebbero riconosciute in ambito sociale e politico. In un primo scenario ottimale, ciò condurrebbe ad un partito più democratico, aperto al dibattito, che permette tendenze nel quadro dell’unità di propositi strategici. Non è azzardato affermare che ciò potrebbe anche condurre ad un sistema multipartitico, specialmente se il Partito Comunista cessasse di assumere il ruolo di avanguardia. Uno spostamento del sistema politico in questa direzione potrebbe aiutare la nascita e lo sviluppo di opzioni partitiche responsabili e leali con la continuità del sistema.
È in gioco la continuità del socialismoIl popolo cubano ha pagato un alto prezzo per oltre 40 anni per il peccato di voler perseguire un progetto alternativo a vocazione socialista e di indipendenza nazionale in quello che gli Stati Uniti hanno sempre considerato il proprio cortile di casa. Per decenni, ha dovuto pagare un prezzo per i vantaggi innegabili del sostegno sovietico. Oggi, paga un costo raddoppiato per persistere in questo impegno, ritornando con singolare crudezza alla tragedia storica del socialismo in un solo paese. La continuità socialista, di un socialismo rinnovato e collegato ad una strategia mondiale anticapitalistica, non è una improbabilità assoluta. Ma nemmeno è garantita questa continuità per le leggi generali della storia, invocate nei tempi antichi.
Se Cuba deve affrontare una restaurazione capitalistica, bisognerà pensare che i costi pagati negli ultimi quarant’anni sono stati un investimento per la futura rinascita di una alternativa di sinistra.
Bisognerà continuare ad avanzare, ricordando la avvertenza di Don Chisciotte al suo scudiero, sebbene avanzare provochi i latrati dei burocrati convertiti in imprenditori, dei dogmatici trasformati in liberali o semplicemente di quanti immaginano che stiamo arrivando effettivamente alla tanto pronosticata fine della storia.

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