«Abbiamo fatto germinare le nostre idee per imparare a sopravvivere in mezzo a tanta fame, per difenderci da tanto scandalo e dagli attacchi, per organizzarci in mezzo a tanta confusione, per rincuorarci nonostante la profonda tristezza.
E per sognare oltre tanta disperazione.»


Da un calendario inca degli inizi della Conquista dell'America.
  • slide01.jpg
  • slide02.jpg
  • slide03.jpg
  • slide04.jpg
  • slide05.jpg

NICARAGUA / Come salvare il bosco, costruendo case e tagliando alberi...

L’ecologia tradizionale domina il pensiero e influisce pesantemente sulle leggi, politiche e decisioni che si prendono nel Nord del modo per preservare i boschi dei Paesi del Sud. La “nuova ecologia” sfida i miti dell’ecologia tradizionale e può risultare cruciale per i Paesi del Sud. Una provocazione intellettuale che,  crediamo - e speriamo - farà discutere.

Di René Mendoza Vidaurre ricercatore di Nitlapán-UCA. Traduzione di Marta Fracasso. Redazione di Marco Cantarelli.

Abbattendo il bosco per seminare mais e fagioli, coltivare caffè ed allevare bestiame, le famiglie contadine sono passate in meno di quarant’anni da eroiche all’essere considerate un problema. Quando il mercato statunitense chiedeva carne in abbondanza per i suoi hamburger, l’allevamento è stato promosso e finanziato dalla Banca Mondiale e dal Banco Interamericano de Desarrollo: oggi, anche la sola pratica di bruciare la terra per preparare la semina è un atto penalizzato. Molte cose sono cambiate. Ma l’ingiustizia è la stessa. Ieri e oggi, le famiglie contadine ed indigene continuano a perdere la loro terra. Cambiano solamente i discorsi, tradotti in leggi e in politiche. Prima perdevano la loro terra perché si opponevano al progresso, ora la perdono per essere “conservazionisti”.
Negli ultimi quarant’anni, spiegazioni e soluzioni suscitano nuovi interrogativi. Perché dichiarare grandi aree di riserva naturale in America Latina, dove non esistono grandi animali per questi habitat? Perché affermare che i boschi si vanno esaurendo al ritmo di crescita della popolazione? Perché sono diventate una specie di parola divina frasi come: “ più aree di bosco, maggiore biodiversità”, oppure “le aree  protette sono la migliore invenzione umana per salvare i boschi”, o ancora “la non intromissione umana garantisce una natura vergine”? Da dove nascono queste credenze?
Nelle aree boschive vivono oggi in maggioranza famiglie indigene ed è proprio in queste zone che scoppiano profondi conflitti sociali. È il caso della “frontiera agricola” in Nicaragua, del Chapare in Bolivia, del Chiapas in México, di zone del Paraguay e dell’Ecuador, dell’area amazzonica in Brasil. Scontro di culture, bosco e violenza. La visione dominante dell’ecologia inasprisce ancor di più i conflitti. Abbiamo bisogno di un nuovo punto di vista per osservare e valorizzare ciò che abbiamo, ciò che siamo e ciò che sogniamo. La nuova ecologia emergente può risultare fondamentale per i Paesi del Sud.
Prima e dopo DarwinIl sorgere e lo sviluppo dell’ecologia come una nuova scienza è coinciso con la rivoluzione industriale e con il fiorire del pensiero intellettuale, ambiente nel quale nacque pure l’antropologia. Secondo uno dei concetti più influenti prima della nascita dell’ecologia, l’ecosistema progredirebbe sempre in un processo di evoluzione e attraverso una serie di fasi, una dietro l’altra, fino al raggiungimento di uno stato di maturazione e di equilibrio relativamente permanente. Un bosco in stato di “equilibrio” è formato da diverse specie e da alberi di diverse età, dove i più vecchi dominano l’area e sono rimpiazzati dai più giovani quando muoiono.
Molte altre nozioni di questa tappa iniziale parlano di equilibrio, di omogeneità delle specie, di autocorrezione degli ecosistemi, di una natura autoregolata che si conserva da sola. La nozione di “cambiamento” si intende unicamente a partire dal dentro e in direzione lineare, senza riconoscere un intervento esterno. In uno scenario così, gli esseri umani giocano un ruolo minore, un ruolo “naturale” e di non intervento. Ruolo che esercitano, per esempio, nel controllo del fuoco. Si ritiene che l’azione umana nei confronti di una Natura ordinata ed armoniosa, costante e stabile, imperturbata ed autoregolata risulti distruttiva. In base a queste caratteristiche, la Natura risulta prevedibile.
Attraverso i secoli si sono sviluppati numerosi concezioni ecologiche in base a queste supposizioni. Il geniale Charles Darwin con la sua scoperta della competizione come legge inevitabile della Natura e dell’evoluzione per ottenere la selezione naturale come un “filo rosso” che spiega tutta la Natura, influì notevolmente sui pensatori che seguirono. Per Darwin, la Natura è una “rete di relazioni complesse” dove sopravvivono gli individui e le specie, e l’economia della Natura è un sistema di “luoghi” dove ogni specie lotta per occupare il suo posto. Per effetto di tale lotta, l’insieme della Natura ne trae beneficio. Nonostante il fatto che con questa come con altre teorie rivoluzionarie Darwin avesse rotto i principi della vecchia ecologia, sostituendo alla creazione l’evoluzione come chiave di lettura, il che obbligava a guardare in una prospettiva non lineare, anche dopo Darwin si continuò a concepire l’evoluzione in senso graduale-lineare, fase per fase, senza tener conto della necessità di un intervento esterno.
Ordine divino ed universo perfettoTre metafore sulla Natura sono state i paradigmi dominanti l’ecologia tradizionale: la Natura come creatura divina, come organismo e come macchina. Fino ad epoche recenti nella storia umana, filosofi, teologi e gente comune hanno concepito la Natura come una creazione di Dio, espressione dell’ordine divino. In tale “ordine”, tutte le specie hanno un posto nel mondo, inclusi i predatori che mantengono le popolazioni stabili e costanti. I testi della Bibbia rivelano tale ordine. Prima dell’era cristiana, Cicerone, Platone ed Aristotele pensavano ad una Natura ordinata, bella, destinata a soddisfare le necessità umane. E fino al XIX secolo inoltrato, quello è stato il paradigma dominante: una Natura divinamente ordinata e degli esseri umani posti da Dio nella Natura per dominarla e per trarre beneficio dal suo ordine e per mantenerlo.
Quando i progressi della scienza nell’ultimo secolo hanno permesso agli scienziati di scoprire la complessità dell’universo, tutto così ben misurato per lo sviluppo della vita, e sebbene la scienza del XX secolo si occupi ormai del che cosa e del come e non del perché della metafisica e della religione come nell’antichità, alcuni scienziati contemporanei hanno continuato a trarre la conclusione che il disegno di un universo così “perfetto” non può che obbedire a qualche proposito “divino”. Così, l’idea di un universo perfettamente strutturato per la vita – vicina all’idea precedente di un universo divinamente ordinato –, è rimasta sotto la superficie, influendo velatamente sulle interpretazioni che ancora oggi diamo dell’ambiente e del ruolo degli esseri umani in esso.
L’organismo e la macchinaFin dai tempi antichi la Natura è stata anche vista come luogo di pericoli e di rischi, luogo del male, ispiratrice di timori. Nei testi biblici e negli antichi filosofi si fa presente questa linea di pensiero. Le evidenze circa la lotta per il cibo, la feroce competizione fra le specie per il controllo del territorio e per le sue risorse servirono a Darwin per forgiare la sua teoria, destinata a rivoluzionare tutto. A partire dalle idee di Darwin, molti di quelli che oggi chiameremmo “scienziati sociali”, come l’inglese Spencer, considerarono la società umana come un “organismo sociale” in cui i più forti sopravvivono. In tale processo, non c’è alcuna necessità di intervenire: una volta conclusa la fase di competizione, si stabilisce l’armonia. Il paradigma dell’organismo espri- me una svolta nei confronti della visione precedente: nella Natura, opera perfetta di un creatore perfetto, esiste una lotta a morte e in queste convulsioni si esprime la Natura come organismo vivo, riflesso del potere di Dio.
Il terzo paradigma è quello della Natura-macchina. Nei secoli XVII e XVIII, secoli della rivoluzione industriale e dell’affermazione delle macchine, Newton e Keplero apportarono nuove idee e dimostrarono che il sistema solare, ed in esso la Terra, operavano con la sincronizzazione di un “orologio”. Per alcuni, questa transizione – dal punto di vista organico a quello meccanicista – significò “la morte della Terra”. Secondo Daniel Botkin, «lo sviluppo delle scienze moderne, a partire dalla fisica, ha comportato un cambiamento nelle metafore, e più in profondità un cambiamento nella spiegazione: dalla credenza che vede la Terra come un organismo creato dal Grande Artista, siamo passati alla credenza della Terra come una magnifica macchina inventata dal Grande Ingegnere». Nonostante la svolta è rimasta una visione teologica: se l’universo è un orologio, deve esserci un orologiaio.
In questa spiegazione meccanicista, la Natura, come una macchina ben oliata, ha la capacità tanto di rimanere in una fase stazionaria conservando un equilibrio, quanto di poter essere ridisegnata dagli esseri umani. E, dato che quando una macchina si guasta si può riparare, il futuro della Natura è prevedibile. Nasce così l’idea che la scienza e la tecnologia, al posto di Dio o della stessa Natura, possano riorganizzare la Natura superando le sue inefficienze o neutralizzando la sua competizione anarchica. Il mondo biologico viene così ridotto ad un sistema meccanico.
Queste tre immagini della Natura hanno dominato sostanzialmente il pensiero dell’umanità traducendosi in concetti distinti. Guardata attraverso queste tre “lenti”, la Natura appare fissa attraverso il tempo, prevedibile e, anche se sottoposta ad un processo di evoluzione, questo è sempre lineare. Tre metafore assai forti che condividono lo stesso punto di vista: l’equilibrio della Natura senza l’intervento umano.
Il discorso sulla deforestazioneI concetti dell’ecologia tradizionale hanno avuto molta influenza nei Paesi del Sud. Anche in Nicaragua, dove la distruzione del bosco può spiegarsi anche con la vigenza di due miti. Il primo – derivato dalle prospettive dell’ecologia tradizionale –: credere che sia necessario creare e mantenere grandi aree protette di bosco. Il secondo: credere che i boschi possano sussistere senza che nessuno li tocchi. La logica dell’attuale Legge Forestale del Nicaragua è basata su questi due miti: di qui, la sua ansia per il controllo e la sua smania di “grandezza”.
Spinto dai concetti dell’ecologia tradizionale, si è andato diffondendo per il mondo un “discorso sulla deforestazione” basato su dati presentati da organizzazioni internazionali: FAO, World Resource Institute, World Conservation Monitoring Centre, a partire dai quali si producono mappe basate su statistiche del Geographical Information Systems, che spiegano come i boschi si siano ridotti nel corso del tempo e come la deforestazione si sia andata estendendo nel pianeta come una pericolosa macchia d’olio. Queste informazioni indicano sempre come causa di questa “tragedia” l’intervento dell’uomo: la crescita della popolazione, le migrazioni, l’agricoltura e l’allevamento. Queste mappe segnalano unicamente le grandi aree di bosco e le aree senza bosco… e niente più. Come se non ci fosse nulla nel mezzo. Non tengono conto delle piccole aree di bosco, dei gruppi di alberi nei centri abitati, della agroforesteria o delle combinazioni di bosco e pascolo. Tutto questo è considerato area deforestata.
Le leggi e gli accordi internazionali condividono lo stesso spirito, generato da una visione statica della Natura. I dati e le inchieste prodotti sotto questo “ombrello” riproducono questo spirito. Gli accordi internazionali tendono a riconoscere come “bosco” unicamente le grandi e compatte aree alberate e spingono i governi del Sud a proteggere queste aree dall’intervento umano. In Nicaragua, le politiche forestali impediscono alle famiglie contadine di sfruttare gli alberi presenti nelle loro proprietà. E attività come tagliare gli alberi, bruciare aree per la semina o far legna sono punite.
Le politiche pubbliche sono orientate al soddisfacimento del “climax naturale” ecologico. Ovunque, si propongono due tipi di politiche. Ispirati dal modello di riserva naturale che esiste negli Stati Uniti, i governi dei Paesi del Sud stabiliscono “aree protette” in ciò che rimane dei boschi, fiumi e mangrovie. Quindi, queste “aree protette” sono classificate come zone centrali e ammortizzatrici, come previsto nei manuali di Community Based Natural Resources Management  (cioè, di Gestione Comunitaria delle Risorse Naturali, ndr), che considera che la missione degli uomini sia quella di restaurare le risorse naturali in degrado, facendo “contratti con la Natura”. Abitualmente, queste politiche si disegnano in base a criteri quali: più è grande l’area, più isolata è la regione e più è omogeneo l’ambiente, meglio è per la biodiversità; meno interventi umani, più stabilità. Di conseguenza: più isolamento e povertà per le popolazioni che vivono nel bosco, miglior conservazione del bosco. Nell’attualità sono numerose le prove che smentiscono questi criteri, che tanto peso hanno sulle leggi, sugli accordi e sulle politiche e che mantengono nello sfondo una prospettiva statica della Natura.
Mentre ciò accade, il degrado delle risorse naturali avanza in tutto il mondo. Molto probabilmente, la visione tradizionale accelera questo processo. I concetti e i presupposti tradizionali si basano su semplici ma poderose credenze. La stessa scienza è stata utilizzata per produrle, e con esse si è costruito il “discorso sulla deforestazione”. Forse, oggi conviene fermarci e chiederci: se la scienza è servita per creare un feticcio, come fare in modo che dall’osservazione della realtà nasca una nuova conoscenza basata sul metodo scientifico?
Quale natura è più “naturale”?Secondo l’approccio della “nuova ecologia”, proposto da Zimmer, Botkin, Scoones e McIntosh, il centro è una Natura modellata dagli esseri umani, caratterizzata da incertezza, complessità e variabilità, costantemente perturbata e in continuo cambiamento nel tempo e nello spazio.
La conseguenza di questa visione è un altro tipo di gestione: sfruttare la Natura per preservarla; interconnettere pezzi di bosco e controllare gli incendi nella foresta, invece di promuovere grandi aree e spegnere le fiamme; cercare la popolazione minima e non quella massima per prevenire l’estinzione delle specie. Infine, promuovere l’intervento umano in forma diretta e responsabile, al posto di imporre una politica passiva di “giù le mani” (hands off) o di “lasciar fare” (laissez-faire).
Nella Natura avvengono continui cambiamenti, tanto nel lungo come nel breve periodo. Riguardo al lungo periodo, è un classico il caso molto studiato del Boundary Waters Canoe, in Minnesota, USA. Novemila anni fa quest’area era coperta da boschi di abeti. Poi, gli abeti furono sostituiti da “alberi del pane” e pini rossi. Mille anni dopo predominava la betulla da carta, e l’ontano immigrò nel bosco. Altri mille anni dopo, giunse il pino bianco in alcune parti del bosco e cominciò ad essere dominante. In ogni periodo, la tipologia della Natura fu diversa. Se così è avvenuto in questa ed in tante altre aree, qual è la Natura più “naturale”, quale è la Natura che merita di essere conservata, a quale Natura dare l’opportunità di sopravvivere?
Quando un’area è legalmente dichiarata area di riserva, si assume che tale Natura sia un prodotto naturale, che sia giunta al suo apice o ci stia arrivando. Tuttavia, non è così. La “nuova ecologia” prevede che questa Natura non è la stessa di cinquant’anni fa, né la stessa di cent’anni fa, ancor meno quella di mille anni fa.
Le savane africane, dove è nata l’umanità, hanno conosciuto moltissime “nature” con dominio di diverse specie ed ecosistemi. Il paesaggio è mutato in continuazione. Quale Natura difendere allora, quella del 1980, del 1920 o del secolo XIX? Tutti questi paesaggi sono stati diversi. Gli interessi di chi difendere? Donatori e visitatori possono definire il loro obiettivo: una savana stabile, con prati a pascolo con determinati alberi qua e là, che erano comuni vent’anni fa. Questo sarebbe bello, ma sarebbe una Natura disegnata secondo le aspettative di questi visitatori-donatori.
Quale natura proteggere?Con la consulenza svedese e ispirandosi al modello cileno, a metà anni ‘80, il governo nicaraguense si propose di piantare boschi di pino nella Costa Atlantica, quando bastava un po’ d’aiuto del fuoco perché questi pini nascessero. Oggi, è “di moda” penalizzare il fuoco. Tuttavia, in alcune aree ciò significa che non nascerà alcun bosco di pino, il che a sua volta significa che alcuni uccelli non potranno nidificare e, quindi, saranno condannati all’estinzione, mentre sarà privilegiata un altro tipo di vegetazione.
Quando uno Stato dichiara area di riserva un’area silvestre al fine di proteggerla, se tutte le specie si concentrassero in quest’unica area di riserva, esse correrebbero il rischio di sparire nel caso di disastri come gli uragani. Tutto ciò dimostra tutta la complessità della questione. Chi proteggere, dunque? Quali alberi e quali animali rappresentano la Natura? Secondo l’ecologia tradizionale, la risposta è: si deve lasciare lavorare la Natura. Questa risposta non serve. Perché lasciare lavorare la Natura vuol dire decidere quali specie sopravviveranno e quali domineranno sulle altre. Sopprimere il fuoco significa che alcune specie di alberi non cresceranno più e che altre sovrappopoleranno il territorio. Lo stesso accade con le attività estrattive di legname: alcune specie scompariranno e faranno posto ad altre, e dove non ci saranno gli alberi, cresceranno i pascoli.
Partendo da questo punto di vista, la questione chiave è decidere quale Natura e quali risorse naturali vanno protette, perché e per chi. Per deciderlo, abbiamo bisogno di capire cosa è più appropriato per un determinato Paese, per un determinato municipio, per quello o quell’altro gruppo di persone. Allora, sorgeranno nuove domande. Una specie di alberi di grande valore può essere preferita sulla base di criteri economici, ma bisogna tenere conto anche dei suoi molteplici effetti sulla sopravvivenza di uccelli ed animali. La decisione di proteggere determinate risorse naturali ci porta a decidere anche sulla loro quantità. Ciò significa che per prevenire i rischi di estinzione, è necessario raccogliere (cioè, sfruttare) queste risorse, una logica che va esattamente in direzione contraria alla prospettiva che nasce dall’ecologia statica.
Natura forgiata dagli esseri umaniDopo aver sancito il proposito di salvare una determinata Natura, il problema è come farlo. Per rispondere, abbiamo bisogno di capire prima le basi teoriche fondamentali della nuova ecologia. Poniamo la prima di queste basi quando intendiamo che la Natura è stata ed è creata per tutti gli esseri viventi, anche per gli esseri umani. Fin dai tempi primordiali, quando le alghe iniziavano a riempire di ossigeno un’atmosfera carente di questo elemento che oggi è vitale, gli esseri viventi hanno trasformato la Natura in continuazione.
Non si contano gli esempi. Gli incendi forestali sono stati uno dei mezzi più usati ed importanti di intervento umano sulla Natura. Le popolazioni indigene di tutte le culture hanno usato da tempo immemorabile il fuoco per diradare i boschi e facilitare la caccia e gli insediamenti, ma anche per guadagnare spazi per le loro pratiche religiose. Il fuoco affligge alcune specie e ne favorisce altre, a seconda delle aree. L’impatto del fuoco varia a seconda delle condizioni ambientali: vento, tipo di bosco, tipo di specie ed età ed eterogeneità di queste. Anche le motivazioni umane influiscono sullo scatenamento del fuoco.
L’introduzione di agenti patogeni – virus, batteri, funghi – e di malattie, al pari della guerra e dei sistemi di colonizzazione, hanno avuto conseguenze non solo sugli esseri umani, ma anche su animali e piante. Alla fine del XIX secolo, l’introduzione in Africa di un agente patogeno esterno, il rinderpest, provocò una tremenda moria del bestiame, fatto che influì negativamente sull’allevamento e favorì la crescita di alberi nei pascoli. La diminuzione della popolazione americana a causa dell’arrivo di malattie europee a seguito della conquista e della colonizzazione del Nuovo Mondo durante i secoli XVI e XVII, portò, fra le altre conseguenze, alla riduzione degli incendi forestali e, con ciò, si produssero importanti cambiamenti in vaste aree del continente.
L’introduzione in America Latina e nei Paesi africani di diverse specie di alberi e di bestiame dall’Europa ha avuto importanti effetti nella ridefinizione di moltissimi paesaggi. I cambiamenti nella vegetazione, essendo questa l’habitat di numerose specie, produssero cambiamenti sulle specie stesse. Alcune si estinsero, altre migrarono e altre lottarono per dominare il nuovo habitat, in un costante movimento di popolazioni delle specie. Tutto cambiò. A sua volta, risulta evidente che la Natura che gli europei trovarono in America o in Africa era già anch’essa un “prodotto umano”.
L’estrazione di legname dalla Riserva di Biosfera di BOSAWAS (acronimo di Bocay, Saslaya, Waspán, ndr) nel nord del Nicaragua è in atto da più di un secolo. Nel municipio di Bonanza, l’attività mineraria ha richiesto sistematicamente  legname a partire dal 1880, al punto da costruire strade rurali destinate esclusivamente al trasporto di legname in zone che oggi sono aree protette. Centinaia di indigeni e di meticci hanno estratto chicle (da cui si ricava la gomma da masticare, ndr) da milioni di alberi di piante di fichi d’India nel corso degli anni ‘40 e ‘50 in aree che oggi appartengono alla cosiddetta Zona Nucleo di BOSAWAS. Si tratta, insomma, di una riserva che quando fu dichiarata tale non era “pura” essendo da moltissimo tempo stata trasformata dall’azione degli esseri umani.
L’agricoltura, l’allevamento e lo sfruttamento forestale producono impatti diversi. Coltivazioni come la soia, il sesamo, il cotone e la canna da zucchero richiedono solitamente delle aree “vuote” al fine di ottenere un’alta produttività, mentre il caffè, il cacao, gli alberi da frutta e gli agrumi possono crescere produttivamente in combinazione con diverse colture, anche con alberi dal legname pregiato. Nemmeno tutte le forme di allevamento domestico sono uguali. Le capre si nutrono di qualunque pianta incontrino sul loro cammino, mentre le vacche mangiano solo erba e alcuni tipi di piante. Gli effetti di una o l’altra coltivazione o di uno o l’altro tipo di bestiame nella trasformazione della Natura sono chiaramente diversi. Per non parlare dei diversi effetti che provocano le diverse combinazioni di piante e animali, le tecnologie impiegate e le organizzazioni sociali che sostengono queste coltivazioni e queste tecnologie.
L’interazione natura-uomini è stata così continua nel tempo e risulta così profonda che è logico concludere che la Natura sia un prodotto tanto naturale quanto sociale. Esistono chiaramente diversi tipi di intervento umano: quello non intenzionale e quello intenzionale (sopprimere determinate politiche, sfruttare risorse naturali senza considerare la loro conservazione, ecc.). Per questo, la questione non è tanto se intervenire o meno ma come farlo nel modo più appropriato.
Continue perturbazioni e caosUn’altra base della moderna ecologia consiste nel ritenere che in Natura non esista un unico equilibrio ma molti. Che la costanza e la stabilità non siano caratteristiche della Natura, ma lo siano il caos e la perturbazione, generatori di grandi variazioni nel tempo e nello spazio. Paradossalmente la Natura può trovare il suo “equilibrio” nello “squilibrio”.
La perturbazione si definisce come “qualunque evento relativamente discreto nel tempo che irrompa nell’ecosistema, nella comunità, nella struttura della popolazione, nelle risorse del cambiamento, nella disponibilità del substrato o nell’ambiente fisico”. L’azione della perturbazione significa un’interruzione e ci impedisce di concepire il progresso come un processo lineare. Sono molti i fattori che causano perturbazioni. Il fuoco, tanto quello appiccato dagli esseri umani come quello provocato dai fulmini. Eventi come uragani e tifoni, eruzioni vulcaniche, inondazioni. Malattie e insetti che colpiscono gli alberi, gli animali e gli esseri umani. Nonché, l’intervento umano diretto con le attività produttive o di sfruttamento del legname.
La portata di queste perturbazioni si calcola nel tempo e nello spazio. Quando qualche perturbazione investe aree estese, può causare danni che durano un decennio o, persino, un secolo. L’irruzione del vaiolo in America ridusse in modo considerevole e per sempre le popolazioni autoctone. Gli incendi forestali del 1998 in Nicaragua, per effetto del fenomeno climatico del Niño, bruciarono grandi aree ed ancor oggi se ne sentono gli effetti. Pochi mesi dopo, l’uragano Mitch modificò la geografia centroamericana in diversi punti, provocando frane, lavando le terre e deviando il corso dei fiumi. I gradi di eterogeneità dei paesaggi possono aumentare o ridurre gli effetti delle perturbazioni. Le caratteristiche delle specie – la loro storia, età e varietà – devono essere tenute in conto per calcolare gli effetti. La variabilità climatica favorisce o meno determinati ecosistemi, con l’emergenza o la scomparsa di alcune specie.
Nella Natura, le perturbazioni non sono l’eccezione, ma la regola. Incendi, pestilenze, uragani, tormente, sovrappopolazione animale in un luogo o nell’altro: tutto ciò risale ai tempi più antichi. Ancor più, dipendendo da certe caratteristiche di alcuni ecosistemi, le perturbazioni sono una necessità. Alcune specie necessitano di boschi “puri”, in aree “ripulite” dal fuoco, per svilupparsi. Un taglio di alberi ben selezionato può ridurre gli effetti della tormenta. Gli incendi forestali annuali possono creare problemi, ma se si effettuano ogni dieci anni possono essere necessari per dare vita a certe specie. Quando le perturbazioni si intendono come la regola e non l’eccezione, il caos può essere considerato come la situazione normale della Natura, la situazione che garantisce la sua preservazione.
Un processo di cambiamentiL’esistenza di perturbazioni e caos, e la loro necessità, implica che la Natura cambi costantemente nel tempo e nello spazio. Le variazioni in termini di tempo risultano evidenti e gli esempi abbondano. La variabilità nello spazio viene espressa da diversi fattori. Allo stesso modo in cui tutte le specie vegetali competono per la luce, per l’acqua, per i minerali nel suolo, esse competono anche per lo spazio. Alcune specie di alberi hanno più successo di altre in questa competizione e ciò fa variare costantemente i paesaggi. D’altro lato, tutto il territorio accoglie differenti specie di alberi che emigrano. Nuove sementi di altre regioni giungono grazie alle inondazioni. Alcune sementi più leggere viaggiano con il vento e le più pesanti con gli uccelli. Anche gli esseri umani le introducono. Questo flusso di sementi è uno dei modi per cui i paesaggi cambiano. Anche lo sfruttamento forestale contribuisce alla variabilità dei paesaggi. Alcune specie spariscono perché in queste attività non vengono lasciati gli alberi che producano semi. I cambiamenti possono anche verificarsi per erosione e per estinzione di specie – alcune specie di alberi che crescono sotto gli alberi più grandi muoiono quando questi vengono abbattuti –. Con l’agricoltura e l’allevamento, i produttori lasciano alcune specie di alberi al posto di altre, abbattono alcune aree e altre no, e pure associano alcune specie. Tutto ciò rende la Natura variabile, non solo soggetta a cambiamenti, ma al punto da richiederli.
Imprevedibile ed incontrollabileSe le perturbazioni ed il caos sono la regola e, di conseguenza, la Natura è altamente variabile, la Natura che nasce da un processo così imprevedibile e talvolta incontrollabile. La complessità, l’incertezza ed una perenne sfida basata sul rischio-opportunità sembra essere qualcosa di inerente all’evoluzione della Natura.
Quanto influisce l’ambiente sulle specie sia animali che vegetali e quanto queste influiscono sull’ambiente? Moltissimo e in molte maniere. Un bosco aperto facilita la vita di alcuni uccelli e non di altri. I boschi fitti proteggono certi mammiferi. Le specie resistenti al fuoco resistono agli incendi forestali, aumentando il numero di animali ed uccelli che hanno il loro habitat in questi alberi dominanti. Quando non ci sono incendi, sono altri uccelli, alberi ed animali a prevalere. Se tutti i cedri piccoli restano senza alberi adulti al loro fianco, la loro forma e qualità ne risentirà, per mancanza di concorrenza. Altri cedri muoiono quando nella piantagione vivono solo cedri piccoli, perché ciò favorisce l’espansione delle malattie. Quando si verificano delle inondazioni, alcune specie di alberi non sopravvivono. D’altra parte, molte altre specie traggono beneficio dai minerali e da altri fattori nutritivi portati dalle acque. Possiamo apprezzare la complessità se teniamo in considerazione l’interdipendenza delle specie in competizione con altri gruppi di specie interdipendenti.
Nel bosco la concorrenza fra le specie genera perdenti e vincenti. Vittorie e disfatte di ogni tipo. Alcune specie muoiono, altre dominano, alcune crescono più  rapidamente, altre migrano rapidamente, alcune crescono lentamente e sopravvivono appena, alcune diffondono i loro semi, altre “decidono” di crescere protette dai loro predecessori. Tutti gli alberi cercano di adattare le proprie strategie alle nuove condizioni e persino imparano a “cooperare” con altre specie o fra individui della stessa specie, ottenendo alleati ed amici che gli permettano di adattarsi ai cambiamenti ambientali e ricreare così nuove nicchie di vita. Quest’unione di relazioni che si stabiliscono nelle aree boschive in ragione della dimensione, dell’età ed del vigore delle specie, è estremamente complesso. Da parte loro, gli alberi influiscono fino a trasformare i fattori ambientali: l’intensità della luce, la temperatura, il nutrimento del suolo. E la popolazione vegetale dominante condiziona la predominanza di una o l’altra specie animale. Per la loro capacità di fissare il carbonio gli alberi svolgono un vero e proprio “servizio pubblico”.
Quanto influisce sulla Natura la diversità di interessi degli esseri umani? Qui la complessità è enorme. Ogni popolazione umana ha interessi molto diversi e la prevalenza di alcuni di essi influisce di più sulla Natura. Nelle grandi aziende e nei sistemi latifondisti che privilegiano la monocultura – pascolo intensivo, sesamo, canna da zucchero, soia, cotone – predominano le aree prive di alberi. In cambio, le piccole aziende favoriscono le aree diversificate con zone boschive. Esistono altri scontri di interessi, anche maggiori. È quanto accade, ad esempio, quando alcuni settori del Nord insistono per la conservazione dei boschi del Sud, mentre altri settori richiedono i preziosi legnami del Sud come beni di consumo.
L’incertezza: compagna naturaleSe la Natura è tanto variabile e tanto complessa, è possibile prevederla? Nell’ecologia tradizionale la previsione si basava sulla concezione della Natura come stabile, costante e in evoluzione verso “fasi-climax”. Ciò dava luogo ad un senso di certezza che rendeva la natura non solo prevedibile ma anche controllabile. Secondo Botkin, «nell’età classica e meccanicista, la Natura era infallibile, prevedibile e comoda, quantunque non eccitante. Ogni cosa era al suo posto ed ogni evento futuro era esattamente calcolabile». Nel momento in cui sono state sfidate tali certezze, è emersa l’incertezza e la Natura si è rivelata difficilmente prevedibile, ricordandoci quel vecchio adagio: “nulla è certo se non la morte… e le tasse”.
Dove va la Natura? Il dualismo area forestale - area disboscata non calza con la nuova ecologia. Nella nuova ecologia la Natura si trasforma costantemente esprimendosi in diversi paesaggi e boschi. Che tipo di boschi avrà la Hutchinson Memorial Forest fra cent’anni? Che tipo di savana prevarrà in Africa fra vent’anni? Quali saranno le aree di foresta in Nicaragua nella seconda metà di questo nuovo secolo? Si manterrà un numero fisso di animali ed uccelli nelle aree attualmente considerate riserva naturale? La risposta più approssimativa è: ci saranno paesaggi diversi da quelli che vediamo oggi e popolazioni di animali diverse da quelle oggi esistenti. Dobbiamo segnalare anche che oggi si va riducendo significativamente l’imprevedibile grazie ai progressi delle metodologie scientifiche. Le previsioni di cambiamenti climatici, ad esempio, sono sempre più precise e ciò permette di prendere precauzioni. Tuttavia, la sfida del cambiamento costante ci sarà sempre e l’incertezza sarà sempre nostra compagna.
Trasformare i rischi in opportunitàFra i rischi cui la Natura ci espone ci sono, all’estremo, la morte e l’estinzione. Le opportunità emergono con il dominio di nuove specie. Nella nuova ecologia, la biosfera non è una macchina, né uno spazio senza vita. È un sistema di qualità organiche di appoggio alla vita e contenitore di vita. I rischi e le opportunità si succedono costantemente a causa di una gran varietà di fattori. Tuttavia, nel mondo in cui viviamo, dominato dagli interessi commerciali, sebbene le opportunità siano grandi, lo sono anche i rischi, e questo deve condurci ad una istituzionalità e ad una organizzazione sociale appropriata, corretta, prudente e ben amministrata.
La relazione fra gli interessi socio-economici e gli interessi naturali può essere un’opportunità o un rischio. Il rischio si può tradurre in opportunità e l’opportunità in rischio. Nello scenario del cambiamento climatico previsto e già in marcia, specie di alberi rimpiazzeranno altre e si avranno pressioni per modificare attività commerciali ed industriali. I legnami leggeri e le attività economiche legate a questi saranno a maggior rischio, mentre cresceranno le opportunità per i tipi di legname duro e per le attività su questo basate.
Una situazione di rischio può permanere se il quadro istituzionale prevalente è basato su una prospettiva statica, come l’ecologia tradizionale. Una politica di non intervento può provocare la morte di alcuni alberi, pur senza tagliarli, il che nuocerà ad altri alberi.
Allo stesso modo, le attività economiche organizzate a partire da una logica puramente finanziaria, come quella dominante le imprese multinazionali del legname, può causare vere catastrofi ecologiche. I rischi possono trasformarsi in opportunità, tanto per la Natura quanto per gli uomini. Si moltiplicano le possibilità di questo scambio vitale quando rinnoviamo la nostra concezione dell’ecologia. E, naturalmente, quando esistono le condizioni base per stabilire un quadro istituzionale appropriato ed efficace.
Cosa ne dicono i contadiniIn Nicaragua, la Legge Forestale commette gravi errori. Gli alberi di legname pregiato che sorgono nelle aziende agricole sono soggetti a controlli, secondo la legge, che disincentivano i produttori a seminare e a lasciar crescere gli alberi nei loro appezzamenti. Juan Pablo de Fátima, di Masatepe, si dispera: «se seguissi la legge, ogni volta che nasce un cedro nella mia proprietà, dovrei tagliarlo. Altrimenti, permetterei allo Stato di confiscare pezzo a pezzo la mia terra». Juan Pablo sa che nella sua proprietà i cedri “sono dello Stato” e che lui deve perdere giorni e giorni, in giro per uffici, per chiedere alle autorità forestali di poter raccogliere il suo albero. L’alternativa è, come fanno i suoi vicini, tagliare l’albero a mezzanotte, venderlo a più buon mercato e rischiare.
Quanti formulano le leggi sembrano non rendersi conto che la maggior parte del Nicaragua si compone di aziende agricole dove gli alberi crescono. Basta uscire da Managua per vederlo. Sia nel quadro di sistemi agroforestali, come le piantagioni di caffè con guanacastes, cedri e lauri; o sistemi silvopastorili di pascolo con genízaros e jícaros (alberi delle bignoniacee, ndr); sia con la rigenerazione naturale mista ad alberi piantati nelle aie contadine; come nelle recinzioni “vive” (cioè, composte da fila di alberi, ndr). Le autorità sembrano non sapere che la legna che si consuma nelle città si produce in gran parte nelle aziende contadine, o che i mobili di Masaya sono fatti con i lauri, guanacastes e cedri delle piantagioni di caffè.
La legge forestale nicaraguenseSembra difficile vedere ciò che è ovvio. Stimolare il ripopolamento forestale è più economico per la via del ripopolamento naturale che per mezzo di progetti di riforestazione. Don Francisco, della comunità di Tadazna, dalle parti di Siuna, lo sa bene: «al mio bracciante dico: per ogni alberello che il tuo machete rispetti ti pagherò cinquanta centesimi. Così, alla fine della giornata il mio bracciante guadagna il doppio. E mi lascia la parcella piena di fiori! Non so perché lo Stato non favorisca cose così, ma al contrario, sprechi tempo e soldi in sacchettini (il riferimento è alle piantine che escono dai vivai, in piccoli sacchetti di plastica, pronte per essere trapiantate, ndr)». È più economico il metodo di don Francisco. Esiste un sapere contadino nella cura degli alberi, un sapere che può anche essere utilizzato e sostenuto per la produzione di legname di buona qualità che dia un valore aggiunto maggiore al prodotto sul mercato.
La politica ufficiale non valorizza l’importanza degli alberi come fonte di risparmio e capitale di investimento. Un buon esempio, lo abbiamo oggi nelle piantagioni di caffè, in piena crisi dei prezzi del caffè. Molti produttori di caffè potrebbero affrontare meglio la crisi vendendo ad un buon prezzo i loro cedri. Di fatto, lo fanno. Ma a prezzi bassi, di nascosto e sentendosi dei “peccatori”. Perché? Se in un momento di crisi i tuoi alberi ti hanno salvato, non è ragionevole pensare di lasciar crescere più cedri nella tua proprietà al fine di affrontare altre crisi? Tuttavia, la logica di chi comanda, respirando una cultura urbana, è un’altra: se la legge non è più repressiva, (i contadini) finiranno per tagliare tutti gli alberi delle piantagioni di caffè! Sono alcune espressioni della debolezza della Legge Forestale nicaraguense, che hanno gravi conseguenze sul paese. Non resta che rivedere in nostri miti per poter vedere ciò che i nostri stessi occhi non riescono. E per studiare creativamente nuove opzioni. Oltre agli alberi nelle aziende, gli spazi di bosco interconnessi gestiti dalla popolazione locale con regole che superino il dualismo fra ecologia ed economia, possono costituire la soluzione migliore per la conservazione della biodiversità e per la riduzione della povertà. In Nicaragua, questi spazi sono più promettenti delle grandi aree forestali amministrate dallo Stato.
Un nuovo paradigma ecologicoA partire dagli anni ’70, con l’inizio dell’era della tecnologia informatizzata e della globalizzazione, è venuta emergendo una nuova prospettiva sulla Natura, intesa in continua interazione con la società degli uomini. Prospettiva, questa, articolata su nuovi concetti: la variabilità, l’incertezza, la complessità, la trasformazione costante e rischi ed opportunità in abbondanza.
A partire da questa nuova prospettiva possiamo rileggere le scienze naturali e sociali, i movimenti sociali e le politiche esistenti. Fino ad oggi, discipline distinte – sociologia, ecologia politica, ecologia culturale, ecologia umana, ecologia antropologica, economia ambientale - sono state profondamente influenzate dalla vecchia prospettiva statica dell’equilibrio. Correnti di pensiero come la teologia della liberazione, l’ecofemminismo, la nuova sinistra, inclusi i movimenti ecologisti radicali, confluiscono nello stesso spirito dell’ecologia tradizionale. Persone con una mentalità assai progressista possono condividere – e lo fanno – un pensiero ecologico molto conservatore. Una delle peggiori conseguenze della grande influenza che ha avuto ed ancora ha l’ecologia statica è stata il fallimento di molte politiche e la perdita di opportunità sia per la salvaguardia ambientale sia per il benessere della gente.
Il punto di vista che assume il non equilibrio della Natura può costituire un ponte tra le scienze e può dare più realismo ai movimenti sociali, adesso che sono molte le discipline emergenti che hanno assunto la prospettiva che tiene conto della variabilità, della complessità, dell’incertezza, della non linearità e della sorpresa. Tutte queste sono nozioni con le quali lavora anche la nuova ecologia. L’interazione fra Natura e società può essere meglio intesa a partire da questa prospettiva: la Natura come risultato di conflitti sociali e la società influenzata da tutte le componenti biofisiche della Natura. Avvalendosi di questo nuovo punto di vista, è necessario rivedere la nostra concezione di bosco, conservazione e sostenibilità. Concepire il bosco come una grande area compatta di alberi risulta inappropriato in determinati paesi. Inoltrre, molti studi attuali già rivelano che ad aree minori corrisponde una maggior biodiversità – come, ad esempio, negli spazi di bosco interconnesso -. Sono nuove scoperte che indicano che tutte le basi dell’ecologia tradizionale devono essere riviste.
La natura non è naturaleSono molti gli interrogativi che dobbiamo porci. Chi trae davvero beneficio dalle aree protette? Perché esiste la tendenza a mantenere le famiglie indigene in condizione di povertà e di isolamento in queste aree protette, proibendo loro di utilizzare il legname, partendo dalla credenza che tutti gli indigeni siano conservatori di nascita e che tutti coloro che estraggono legname sono degli sfruttatori senz’anima?
Lo stato dei boschi, la realtà delle popolazioni indigene e la violenza in estese aree della frontiera agricola in tutta l’America Latina possono essere meglio comprese a partire dal punto di vista fornito dalla nuova ecologia. Gli indigeni mayangnas del municipio di Bonanza in Nicaragua storicamente hanno usato i boschi nei quali vivono come rifugio, alimento e, persino, per vestirsi: infatti, con la corteccia della pianta del fico d’india erano soliti farsi un specie di cappotto. Negli anni ’40 e ’50, lavorando per le compagnie di estrazione della gomma, hanno sfruttato milioni di piante di dico d’india. Ieri come oggi, sono vissuti e vivono della caccia del cinghiale e altri animali. I mayangnas hanno utilizzato le risorse naturali e, allo stesso tempo, le hanno preservate. Perché, allora, le idee in voga fra le agenzie di cooperazione internazionale propongono oggi che i mayangnas conservino le risorse naturali “senza toccarle”?
Conservare e sfruttare sono due concetti importati che hanno contribuito a fomentare le tensioni nella zona e i conflitti con i meticci, mentre le pratiche ancestrali dei mayangnas, come quelle di molte famiglie campesine, è stata e chiede di continuare ad essere questa: “utilizzare per conservare”. Se le politiche forestali del Nicaragua tenessero in conto questa pratica ancestrale, talvolta eviterebbero che si verificasse la drammatica previsione del prestigioso scienziato nicaraguense Eduardo Baumeister: «in un tempo brevissimo, i prossimi vent’anni, saremo tutti testimoni in Nicaragua della fine della frontiera agricola, vedremo il bosco trasformato in beni immobili».
La Natura non è naturale. L’essenza di questa verità, lontana dal giustificare la distruzione del bosco, ci dà una pista chiave per conoscere la Natura, per capire come lavora da milioni di anni. In questa prospettiva ci stiamo noi esseri umani, che siamo parte della Natura e che possiamo intervenire direttamente su di lei, ogni volta con una maggiore razionalità che nasce dalle prodigiose interconnessioni fra i neuroni dei nostri cervelli, opera maestra della Natura.

STATISTICHE

Oggi56
Ieri232
Questa settimana288
Questo mese4285
Totale7533424

Ci sono 18 utenti e 0 abbonati online

VERSAMENTI E DONAZIONI

Bastano pochi clicks, in totale sicurezza!

Importo: