NICARAGUA / "Ho passato dodici giorni in una maquiladora..."
Di Yanina Turcios Gómez, ricercatrice di Nitlapán-UCA, gruppo di lavoro sulla maquila. Traduzione di Sabrina Bussani. Redazione di Marco Cantarelli.
Ho passato dodici giorni in una fabbrica maquiladora (vedi riquadro a pagina 5, ndr) della Zona Franca di Las Mercedes, alle porte di Managua. Nonostante la mia permanenza sia stata molto breve rispetto ai mesi e anni che migliaia di donne, e pure uomini, passano in questa specie di “campo di concentramento”, l’esperienza, tanto interessante come estenuante, mi ha dato la possibilità di conoscere dall’interno un “mondo” che caratterizza sempre più il Nicaragua.
Ai cancelliL’entrata alla Zona Franca somiglia alle strade del Mercado Oriental (per antonomasia, un luogo caotico di commerci di ogni tipo, ndr) di Managua nelle domeniche dopo il giorno di paga. È impressionante vedere migliaia di donne e uomini passare per l’entrata principale, che peraltro è uno stretto vicolo. Ogni giorno, entrano ed escono da qui circa 20 mila persone. Altre 5.000 entrano da un altro ingresso.
Su entrambi i lati delle entrate ci sono bancarelle, dove si trova di tutto. Lo spazio è piccolo, giusto pochi metri di strada, ma sempre affollatissimo durante le ore di entrata e uscita. All’entrata, la gente si raduna attorno alle venditrici che offrono caffè e pane con burro, tortillas semplici o con formaggio; per chi preferisce una colazione più sostanziosa, c’è riso e fagioli. Ma c’è anche chi non può permettersi che un biscotto con una tazza di caffè. Chi invece ha poco tempo, mangia all’interno della fabbrica, negli spazi appositi o in qualunque posto dove possa sedersi. Altri fanno colazione camminando, mentre si dirigono alla fabbrica.
Lunedì, Martedì e Mercoledì sono i giorni in cui più gente si raduna davanti ai cancelli del complesso industriale: una moltitudine in cerca di lavoro. Alcuni avranno la fortuna di essere scelti già alla prima selezione, altri passeranno mesi presentandosi ogni giorno, con la speranza che “forse domani...”. Il requisito più importante richiesto a chi cerca lavoro è la carta d’identità.
Cercando lavoroGià alle sette di mattino, numerosi microbus e camionette sono parcheggiati davanti all’entrata della Zona Franca: su quei mezzi saliranno più tardi le persone selezionate dai rappresentanti delle varie ditte che hanno bisogno di manodopera. Le “incaricate dell’ingresso” – così sono chiamate le ragazze che selezionano il personale all’entrata – spesso scelgono a caso; in generale, però, sono più inclini ad assumere chi abbia i documenti più in regola. Io vengo scelta con altre trenta persone dalla rappresentante di una fabbrica maquiladora, nelle cui liste mi ero iscritta. Dall’ingresso principale alla fabbrica bisogna percorrere qualche centinaio di metri, costeggiati da altre fabbriche disperse: una di esse è la Rocedes, l’unica il cui nome appaia su un insegna, giacché le altre fabbriche sono “anonime”. Una volta salite sulle camionette che devono portarci alla “nostra” fabbrica, tutte ci guardiamo con l’incertezza negli occhi. Sebbene io sia “raccomandata” e certa di mantenere il posto, resto comunque contagiata dal generale nervosismo.
La camionetta si ferma davanti al grande stabilimento in cui mi accingo a lavorare. Da subito, mi sembra la struttura di un campo di concentramento, di quelli che ho visto nei film. Nonostante l’intero complesso industriale sia protetto in vari modi, ogni fabbrica all’interno dello stesso adotta sue, ulteriori misure di sicurezza. La “mia” fabbrica è completamente recintata da una rete metallica mentre, nella parte più alta, rotoli di filo spinato scoraggiano anche i ladri più audaci. L’entrata principale della fabbrica è abbellita da un prato verde con palme nane. Secondo dati del 2001, questa fabbrica ha una superficie coperta di oltre 10 mila metri quadri e impiega circa 1.300 fra lavoratrici e lavoratori.
Pronte ed avvisateVerso le 7:05 i lavoratori sono già tutti al proprio posto di lavoro, dopodiché vengono chiuse le porte della fabbrica. Una ragazza ci chiede di formare cinque file. Parla come quando per altoparlante chiamano i dottori negli ospedali o avvisano i passeggeri negli aeroporti. Parla camminando e ripete tutto senza mai guardarci. Parla degli orari di lavoro e della rigorosa puntualità, del cartellino e del suo colore: nei primi 15 giorni del mese dobbiamo timbrarlo sul lato azzurro e nei successivi 15 sul lato rosso. Questa questione dei due colori ce la ripete diverse volte, chiedendoci se abbiamo capito. «Se perdete il cartellino, non è colpa della ditta, ma del lavoratore. Se venite al lavoro e non timbrate perché avete perso o non trovate il cartellino, non vi verrà pagato quel giorno di lavoro, perché non c’è altro registro che il vostro cartellino per sapere se siete venuti a lavorare. E i cartellini persi non verranno sostituiti». Inoltre, ci spiega che ci sono degli armadietti per depositare le nostre cose personali e, chi vuole, può portarsi i lucchetti da casa. Tuttavia, l’argomento su cui insiste diverse volte è il rispetto che dobbiamo portare ai nostri due supervisori, uno nicaraguense e l’altro taiwanese. Dai quali dipende la concessione dei permessi. Dopo tutta questa lista di avvertenze siamo pronte per entrare in fabbrica.
Urla e gridaEntriamo in fabbrica in fila indiana. Lavoratrici e lavoratori ci osservano curiosi. Ci fanno salire al secondo piano, in uno stanzone con vecchie macchine da cucire, un vecchio ventilatore e alcuni manifesti alle pareti che spiegano giochi di abilità. Neanche fosse un registratore, la ragazza ripete un’altra volta quanto già spiegato; l’unica novità è data dalle tipologie di permessi che possiamo chiedere.
Esistono due tipi di permessi: quelli che servono per risolvere qualsiasi problema personale, e che vengono scalati dalle ferie, e quelli per motivi di salute. In questo caso, l’assenza non può durare più di due ore, altrimenti il permesso diventa di tipo personale. Per richiedere i permessi bisogna attenersi agli orari previsti allo scopo: la mattina prima delle otto, oppure il pomeriggio tra l’una e le due. Al di fuori di questi orari non possono essere richiesti permessi.
Nello stanzone delle vecchie macchine da cucire, mi chiedono i miei documenti. Tra di loro, le responsabili parlano normalmente, ma a noi si rivolgono solo urlando. La mia unica reazione è quella di fissarle negli occhi. Il modo di rivolgersi a chi è in cerca di lavoro è sempre volgare: ci urlano facendoci sentire incapaci di intendere o apprendere. Ci parlano come se fossimo venuti per chiedere la carità.
Le domande sono simili per tutti: «Dove vivi? Che esperienze hai? Perché hai lasciato il lavoro che avevi prima? Hai problemi a tornare a casa tardi o a fare straordinari? Sei sposata? Quanti figli hai?». Ho dovuto mentire per stare alla pari con le mie future compagne di lavoro: «Non ho finito la terza media, sono una madre sola senza alcun aiuto dal padre di mio figlio, che sta con mia madre, è la prima volta che lavoro, non ho alcuna esperienza di lavoro in una maquila e, se mi date il lavoro, ciò darà sostento alla mia famiglia..». È quanto racconto. Nello stanzone siamo 34 giovani, in gran parte donne. Io sono la maggiore di un gruppo che in media ha 18 anni.
I documenti fondamentali richiesti sono: carta d’identità, tessera previdenziale, certificato di nascita e due foto. Si ha, poi, un mese per portare i restanti documenti, e cioè: due lettere di raccomandazione, fedina penale, pagelle o diplomi scolastici.
Destinazione: area di imballaggioDopo aver sbrigato alcune faccende, una responsabile dell’ingresso mi chiama in malo modo e mi chiede i miei documenti. Glieli porto e poco dopo mi fa: «Doña Fidelina la vuole vedere». Si tratta della capo-ufficio Risorse Umane. Mi avvio tra il rumore delle macchine da cucire lungo un corridoio che mi appare interminabile. Doña Fidelina mi chiede se ho la tessera della sicurezza sociale o il tagliando del pagamento. «No, perché non ho mai lavorato. Questo sarà il mio primo lavoro», le dico. «Siamo fregati! – fa lei e risolve così la questione – : l’unica soluzione è non registrarti in fabbrica come persona assicurata, ma devi promettermi di non dirlo a nessuno, di stare molto attenta all’interno della fabbrica e per strada venendo qui. Perché, se poi ti succede qualcosa, l’impresa non si assumerà nessuna responsabilità, diremo che non sappiamo niente e che non è successo niente».
Vengo destinata al settore imballaggi. Secondo doña Fidelina è un lavoro meno pericoloso, che non richiede maggiore esperienza. A quel punto, ho già il mal di testa. Continuare ad ascoltare quelle due donne, che non fanno altro che ripetere e ripetere le stesse cose, senza mai dirci chi viene assunto e chi invece no, mantiene molto alta la tensione.
Quindi, firmo il contratto. Un contratto per un mese, con un salario base di 960 córdobas mensili (circa 65 euro, ndr), più quanto mi spetterà eventualmente per gli straordinari. Riceverò il salario ogni 15 e 30 del mese. Delle prime 34 persone selezionate, ne vengono assunte 28. Scelgono le ragazze più giovani, con minore esperienza. Nel gruppo di imballatrici siamo in 6, di cui 4 non hanno precedenti esperienze di lavoro. Tutte le altre vengono impiegate come “piegatrici”, in lavanderia e 3 nelle varie linee di produzione.
Usciamo da quella stanza in fila indiana e ognuna viene via via assegnata al suo posto di lavoro. Le altre lavoratrici non fanno che guardarci, mentre non mancano gli uomini che ci fischiano dietro o fanno apprezzamenti che essi considerano dei complimenti. Noi sei del gruppo “imballaggi” dobbiamo percorrere la fabbrica fino in fondo. La maggior parte delle ragazze lavoratrici di quest’area smettono di lavorare al nostro arrivo, si mettono a farfugliare tra di loro, qualcuna ci sorride, altre ci mandano segnali con gli occhi, altre non ci degnano di uno sguardo. Ci presentano al nostro supervisore nicaraguense, un certo Leoncio. Di nuovo, ci ripete alcune delle regole che ci hanno già spiegato le signorine dell’ingresso.
La regola principale che ci viene spiegata è che ci tocca lavorare anche dopo il normale orario di lavoro (17:15), se non abbiamo problemi di trasporto. «Qui agli imballaggi l’uscita è alle 19:15. Possono però esserci occasioni in cui vi fermerete anche più a lungo. Questo significa che farete due ore di straordinari. Le ore di lavoro del Sabato e della Domenica saranno pagate come ore straordinarie». E poi un’altra avvertenza: «Vi raccomando di non coltivare relazioni con le lavoratrici più anziane, state lontane da loro perché sono molto furbe». Ci chiede poi se tutte abbiamo figli e chi ce li tiene, in modo da prevenire problemi con possibili richieste di permessi. Ci ricorda che siamo in prova per un mese e che solo quelle che faranno bene il proprio lavoro potranno restare.
Rumore, lanugine, caldoIl supervisore ci distribuisce in posti diversi. Due finiscono ai tavoli dove si applicano le taglie alle camice: etichette trasparenti, una in fondo alla camicia e l’altra nel colletto. Qui, si mettono anche le etichette del prezzo e quelle della marca. Quindi, la merce viene imballata. Insieme ad altre tre ragazze vengo assegnata al Controllo Qualità, dove Leoncio dice ad un’altra ragazza di spiegarci il lavoro. Il lavoro consiste nel controllare le giacche prodotte per la J.C.Penney (una delle principali catene commerciali degli Stati Uniti, ndr). «Non possono avere fili che pendono, devono essere ben stirate, nella fodera non ci devono essere tracce di gesso; dovete verificare bene le cuciture, affinché le righe non appaiano spaiate». La stoffa di quelle giacche è a strisce, che devono corrispondere nei vari pezzi cuciti. Altrimenti, il prodotto “non passa” e viene segnato come merce sbagliata. Non importa se ce se ne accorge durante la stiratura, in lavanderia o alla macchina da cucire: se non è a posto, la giacca “non passa”. La ragazza che ci spiega queste cose è la prima persona gentile con noi.
Il rumore è insopportabile e la lanugine che pullula nell’ambiente – le giacche sono di cotone imbottito –, mi causano subito allergia. Di fronte al Controllo Qualità c’è una delle linee di produzione. Si contano sulla punta delle dita le ragazze che portano maschere di protezione: sono solo 4. Chiedo se è l’azienda a fornire le maschere. «Macché – mi rispondono –, se la vuoi, te la devi comprare».
Per controllare le giacche dobbiamo andare a prenderle in stireria, in una specie di carrello. Ogni stiratore ci dà sei giacche alla volta. Il compito di stirare è svolto da due persone: una che stira e una che piega, uomo e donna o viceversa. Il supervisore annota quante giacche ci vengono consegnate, in modo da stabilire il livello di produzione di ogni dipendente. Si lavora in catena: prima ci sono le linee di produzione, poi le stiratrici, il controllo qualità e, infine, l’imballaggio.
Andare a ritirare quella mezza dozzina di giacche è un compito pericoloso. Lo spazio in cui si deve passare è stretto e si rischia di bruciarsi. Il caldo è insopportabile a causa del vapore espulso dai ferri da stiro e della concentrazione di persone. Tra una persona che stira e l’altra c’è uno spazio di appena 1,20 metri, nel quale devono passare le persone del Controllo Qualità per ritirare i pezzi stirati, gli incaricati di portare la merce sporca in lavanderia, gli incaricati di portare i pezzi difettosi in riparazione – “tornare alla macchina”, dicono –, e i supervisori del settore.
Ciò che colpisce è il fatto che in una fabbrica così grande, nella quale lavorano migliaia di persone, e in cui vengono impiegate quantità enormi di prodotti chimici ed macchine che possono esplodere non esista alcun piano di evacuazione per casi di incendio o terremoto, né ci siano estintori o squadre di pronto intervento.
Ad ogni tavolo dei settori Controllo Qualità e Imballaggio ci sono due dipendenti che effettuano il controllo. Dietro di loro ci sono ragazze che con la apposita “pistola” applicano le etichette del prezzo, poi altre due ragazze per le etichette delle taglie sul colletto e sulla confezione, e infine due ragazze che infilano le camice nelle confezioni a seconda della taglia della merce.
Alla fine della catena ci sono le dipendenti che mettono ogni singolo pezzo negli scatoloni, sempre suddivisi per taglie. Le ragazze che mettono i vari pezzi nei sacchetti devono stare attente che la taglia indicata sul capo corrisponda a quella indicata sul sacchetto, così come le ragazze che ripongono tutto negli scatoloni devono porre attenzione che le taglie sui sacchetti corrispondano a quelle sui capi. Altrimenti, tornano indietro per la correzione. In caso di errore, le lavoratrici preferiscono che il capo venga “rimandato indietro” subito, senza aspettare che se ne accumulino più di tre. Il motivo è semplice: se saltano fuori troppi errori in una volta, si rischia di perdere il premio produzione; e, poi, bisogna arrivare prima al lavoro. Qualsiasi imperfezione nel lavoro, infatti, costituisce motivo per un’ammonizione e comporta una decurtazione del salario.
Le anziane, le nuove e la pauraIn fabbrica ci sono, di fatto, tre gruppi di potere: quello dei supervisori stranieri, cioè taiwanesi; il gruppo dei supervisori nazionali; e il gruppo delle dipendenti, quest’ultimo diviso tra le “anziane” e le “nuove”. I conflitti più frequenti sono scatenati da motivi di lavoro. Ci sono, poi, anche conflitti per motivi sentimentali, principalmente tra donne per causa di uomini. I rapporti tra le nuove arrivate e le lavoratrici che lavorano da più tempo in fabbrica sono difficili. Le “anziane” non vogliono cedere spazi alle “nuove” e così i primi giorni delle neo-assunte sono davvero difficili, alle prese con le “anziane” e i supervisori.
È un continuo “toglierti la terra da sotto i piedi”. Nei primi giorni, davanti ai supervisori, le anziane spiegano il lavoro alle nuove arrivate, ma appena i supervisori si voltano dall’altra parte, l’atteggiamento cambia e le “nuove” vengono ignorate. Se tenti di fare meglio il tuo lavoro, le “anziane” ti dicono di farti da parte, perché se sbagli qualcosa saranno loro a subire le conseguenze, che consistono sempre nella cancellazione degli incentivi di produzione. Non resta che tacere. Un po’ alla volta subentra la paura. E, poi, ti dicono: « Al “cinese” non piace che tu faccia così, se vede che non lavori, ti caccerà, le donne fannullone non le vogliono qui, ti insulteranno e ti faranno vergognare».
Scopo di questi discorsi è mantenere alta la paura. Certamente, alcune cose che ti vengono dette sono vere, ma altre no. È una catena di messaggi che incutono timore, che dalle lavoratrici anziane viene trasmesso a quelle nuove, le quali a loro volta lo trasmettono a quelle che arrivano dopo di esse. In questo modo, si crea un circolo vizioso di menzogne e verità, che non si distinguono più.
Ho poi avuto la possibilità di verificare le bugie e le verità, ma anche le mezze menzogne e le mezze verità. In generale, si può dire che il gruppo delle “anziane” si sia specializzato in piccole malvagità e furbizie in modo che le “nuove” vengano riprese, soprattutto se dimostrano un po’ di abilità per il lavoro.
Essere come le altre, accettataQuando si inizia a lavorare in una di queste fabbriche, bisogna trovare il modo di sopravvivere e l’unico modo possibile di farlo è farsi accettare dal gruppo dominante. Per riuscirci, si cambia il proprio modo di essere, di rapportarsi agli altri, e spesso anche il proprio modo di pensare. Spesso, si assumono le stesse abitudini, gli stessi gesti e modi di parlare, nel tentativo di comportarsi come la maggioranza. Si impone anche un certo modo di vestirsi per cui tutte finiscono per portare jeans e camicetta, lo stesso tipo di sandali e lo stesso trucco. Le camicette di un certo modello vengono comprate e vendute a dozzine, spesso anche dello stesso colore. Come se fossero un’uniforme.
I discorsi che si fanno durante il lavoro trattano sempre dei problemi di casa e con il fidanzato, e ogni giorno c’è qualche pettegolezzo nuovo. Con l’avvicinarsi del giorno di paga si inizia a parlare di quanto ciascuna guadagnerà, come spenderà i propri soldi, i debiti da pagare per le spese impreviste della casa... La maggior parte delle ragazze, che lavorano nel settore che mi è toccato, sono adolescenti tra i 17 e i 18 anni. Le più vecchie hanno circa 25 anni e hanno iniziato a lavorare in fabbrica sei o sette anni fa. La maggior parte, se non tutte, hanno già famiglia. Ci sono ragazze di 22 anni che hanno tre o quattro figli. E le ragazze che al loro arrivo avevano un solo figlio, iniziano presto a uscire con qualche ragazzo della fabbrica e restano, poco dopo, incinte. È uno schema che si ripete con la maggioranza delle lavoratrici della fabbrica.
Le relazioni tra dipendenti uomini e donne sono frequenti, soprattutto se la ragazza o il ragazzo sono stati assunti da poco. Le coppie non sono formate solo tra operai e operaie, ma anche tra supervisori, donne nicaraguensi e stranieri. In questo caso, però, i due sono soliti lavorare in settori diversi. Nella maquila si ritrovano sorelle, cugine, cognate e familiari di ogni grado di parentela, chi portata in fabbrica da qualche familiare, chi raccomandata dalla famiglia ai capi. Le maquilas sono piene di famiglie allargate alla ricerca del sostentamento per i propri cari, imparentati tutti tra loro.
La fame che incombeTra le operaie della fabbrica ci sono anche rapporti di tipo commerciale. All’interno della fabbrica, infatti, esiste un grande mercato clandestino: si vendono e comprano biscotti, caramelle, cioccolatini, gomme da masticare, gioielli in oro laminato, le medicine più comuni, come unguenti, antidolorifici e cerotti per le vesciche che certe lavorazioni provocano alle mani o ai piedi, per chi deve stare tante ore in piedi. C’è molta domanda di questi prodotti e la loro vendita genera buoni guadagni. Se una pastiglia contro il mal di testa costa 1 córdoba in farmacia, in fabbrica costa il doppio. Il mercato è clandestino, perché in fabbrica non si potrebbe portare alcun tipo di generi alimentari ed è severamente vietato comprare qualcosa al bar durante l’orario di lavoro.
La maggior parte dei lavoratori arriva in fabbrica verso le 6:30, in modo da assicurarsi l’incentivo che viene dato a chi arriva almeno 10 minuti prima che suoni la sirena. Per poter arrivare cosí presto, bisogna alzarsi verso le 4, cosí da riuscire a prepararsi qualcosa da mangiare per la giornata e quello da lasciare pronto in casa per la famiglia. Tra le 9 e le 10 di mattina tutti hanno già una fame da lupi, ma fino alle 12, ora di pranzo, non c’è pausa di lavoro e perciò neanche la possibilità di mangiare qualcosa.
Così, la gente ha cercato delle alternative per poter combattere la fame e riuscire comunque a rispettare l’orario di lavoro, spesso di 15 ore senza interruzione. Con molta abilità vengono allora introdotti, nascosti nei vestiti, piccoli dolci da mangiare o da vendere. Sia mangiare che vendere di nascosto richiede molta attenzione. Se un supervisore ti vede, puoi immediatamente considerarti licenziata. Ho chiesto a delle ragazze che erano in fabbrica già da qualche tempo come mai si nascondessero sotto i tavoli per mangiare e mi hanno raccontato una di quelle storie eclatanti: «Una ragazza è stata licenziata perché non aveva tolto il bastoncino al lecca-lecca che stava mangiando, il supervisore l’ha vista e l’ha mandata di sopra (dove si trovano l’amministrazione e la direzione, nda). E quando una va su, poi va a casa...».
I tavoli sono i testimoni muti di quanto viene mangiucchiato in fabbrica con grande rischio. Sotto i tavoli, le lavoratrici si passano dai biscotti alle tortillas con frittura e formaggio portate da casa. Vedere tre volte al giorno il supervisore che beve caffè e mangia biscotti equivale ad una tortura. Ho sperimentato questa sensazione sulla mia pelle quando ho passato due giorni a riempire sacchi di quei piccoli pezzi che si mettono nel colletto della camicia per renderlo più rigido.
A rimproverare di più le lavoratrici sono proprio i supervisori nicaraguensi, nonostante essi partecipino al mercato clandestino. Il nostro supervisore vendeva cerotti e un unguento, molto richiesto per massaggiarsi le tempie: il mal di testa è, infatti, il dolore più diffuso ed è ormai diventata un’abitudine massaggiarsi le tempie verso le 10 di mattina e le 3 di pomeriggio, quando ormai si sta lavorando, in piedi, da parecchie ore.
Urla, violenza e molta pauraI richiami possono scattare per molteplici motivi: perché non ci si trova al proprio posto di lavoro, perché non si raggiunge la meta di produzione prevista, perché si arriva in ritardo senza giustificazione, perché ci si assenta sempre senza giustificazione per un giorno di lavoro, perché si parla troppo durante il lavoro, perché si va più volte al bagno, perché si chiedono troppi permessi per uscire dalla fabbrica...
La maniera di richiamarti dei supervisori nicaraguensi e stranieri è del tutto simile: essi comunicano urlando, in modo che il richiamo venga udito da tutte e così si imponga il rispetto misto a terrore. I supervisori nicaraguensi mi sono sembrati più “cinesi” dei cinesi stessi, quanto ad angherie e maltrattamenti dei lavoratori: nei fatti, è quanto viene loro richiesto dagli stranieri, altrimenti anche loro rischiano il licenziamento.
Spesso i richiami non servono per migliorare o rendere più veloce il lavoro, ma sono semplicemente un modo per insultare e svalorizzare il lavoro delle operaie. Le frasi che gli stranieri più amano dirti sono: «Questo è fatto male! Sei un asino, un gran asino! Hai il cervello di una gallina, non capisci niente!». Per loro, questi sono gli insulti peggiori che possono farti.
Questa forma di maltrattamento è uno schema imposto dai taiwanesi che da più tempo risiedono nel nostro paese. Una ragazza mi ha raccontato che i taiwanesi appena arrivati non maltrattano in questo modo le lavoratrici. Anzi, le trattano con rispetto, addirittura le tengono aperta la porta quando entri, sono gentili. Dopo un po’, però, subiscono l’influenza degli altri e cambiano i modi: iniziano con il fare la voce grossa e finiscono per prenderti persino a calci appena possono. Non so se la cultura asiatica sia violenta, certo è che i supervisori perdono velocemente la testa e si esprimono in modo violento e del tutto ingiustificato, ad esempio, tirando un cacciavite contro un ragazzo. L’autocontrollo non sembra far parte del loro modo di essere e con grande disinvoltura licenziano le gente, anche senza motivo.
Questa possibilità genera molta paura tra i lavoratori. Una compagna di lavoro mi ha detto: « Credo che molte di queste ragazze non hanno mai avuto tanta paura neanche dei loro genitori, come ne hanno di questo qui», riferendosi al supervisore taiwanese. I lavoratori finiscono con ascoltare le urla come se fosse normale, e anche se molti si arrabbiano parecchio, l’unica cosa che fanno è mormorare: «Che vada a farsi fottere!».
Servizi igienici: rifugio multiusoPer i lavoratori e le lavoratrici della fabbrica i servizi igienici sono il posto in cui vengono scaricate molte più cose dei semplici bisogni fisiologici. È il posto in cui si va a mangiare un biscotto, a fumarsi una sigaretta o a concedersi una piccola pausa. È il posto delle confidenze, dove si va a sfogare la rabbia dopo i richiami dei supervisori e dove piangere per l’impotenza nei confronti della repressione e delle punizioni che si sopportano durante la giornata di lavoro. Nei bagni si ritrova un attimo di pace, dove per un momento non si subisce il potere dei supervisori.
Nonostante i servizi manchino delle più elementari condizioni di salubrità, sono considerati un rifugio. Là, si accumulano tutti i dolori, come si accumulano rotoli di tela e carta sporca, a mucchi grandi come i sanitari, quasi tutti fuori uso. I water sono coperti di grosse incrostazioni, i fondi dei sanitari sono scuri, l’umidità è permanente e le pareti non sembrano essere state ripitturate da quando la fabbrica è stata costruita. Sulle pareti si possono leggere messaggi di ogni tipo, come quelli che si leggono nei bagni di una scuola superiore, dagli insulti alle dichiarazioni d’amore e confessioni di infedeltà.
I servizi igienici vengono puliti, o cercano di farli apparire tali, solo in occasione di visite esterne. Allora vengono lavati, viene messa la carta igienica e riempiti i recipienti di sapone liquido per le mani, anche se per farlo durare di più il buco del recipiente è talmente piccolo che, quando premi il bottone, escono più bolle che sapone!
In questa fabbrica ci sono tre servizi, ognuno con 9 water. Nei dodici giorni in cui ho lavorato in fabbrica, solo una volta ho visto una ragazza pulire i bagni. Ero sorpresa, ma poi ho sentito un’altra ragazza commentare: «Chissà chi sta arrivando...!». Infatti, quel giorno sono arrivati dei funzionari del Ministero del Lavoro, accompagnati niente meno che da Gilberto Wong, il segretario esecutivo della Corporazione delle Zone Franche in Nicaragua, la massima autorità in questo settore, che grazie ai suoi tratti orientali si confondeva con umiltà unica tra gli altri asiatici, che lo circondavano riverenti.
Dopo 15 ore, che dolori!L’orario di lavoro normale è dalle 7 alle 17:15. Le ore di lavoro in più vengono considerate straordinarie. Nelle stagioni morte, quelle in cui c’è poca produzione, non si fanno straordinari. Ma, dato che nell’emisfero Nord, l’area cui è destinata la produzione delle maquilas nicaraguensi, ci sono quattro cambi di stagione, c’è una grande varietà di vestiario da confezionare. La tipologia degli ordini è molto diversificata e spesso ci sono molti straordinari da fare, sempre più lunghi e pesanti.
La sezione imballaggi, settore in cui normalmente si finisce di lavorare alle 19:15, deve lasciare i tavoli da lavoro sgombri. Non deve restarci sopra neanche una camicetta. In Giugno, quando vi ho lavorato io, si finiva alle 22. C’era un altro gruppo che lavorava tutta la notte. A volte, ti danno un giorno libero per riposare, ma tutto dipende dal ritmo di lavoro e dalla data di consegna dell’ordine. Queste giornate di oltre 15 ore lavorative – dalle 7 alle 22 – comportano una stanchezza fisica inimmaginabile. Si hanno solo 40 minuti di riposo per il pranzo e altri 40 minuti, verso le 8 di sera, per la cena. Verso sera, i dolori diventano sempre più acuti e si sente ogni tipo di lamento. Il mal di testa diventa insopportabile e le gambe gonfie iniziano a non sopportare più il peso del proprio corpo. Il mal di schiena è diffusissimo. Chi ha problemi di vene varicose ha la sensazione che stiano per scoppiare. Tutti, indipendentemente dal sesso o dall’età, provano diversi dolori e gli unici “rimedi” che si trovano nella bottega del nostro settore sono l’alka-seltzer e l’ovatta.
L’ora del sonnoA sera, i volti freschi e truccati della mattina iniziano ad essere spenti e l’umore delle persone è pessimo a causa delle liti, degli equivoci e degli sgarbi. La stanchezza rende le persone suscettibili. Ma c’è anche chi riesce ancora a scherzare pur di far passare il tempo. Tra le donne, la battuta più frequente è che resteranno senza marito, visto che tornando a casa così tardi sono talmente stanche che solo riescono a cascare nel letto e dormire.
Quello è anche il momento in cui ci si lamenta per l’ambiente in cui si è nati: «Se fossi nata in un mondo diverso non avrei bisogno di lavorare qui e me ne starei seduta a casa mia, con i miei figli e mio marito»; oppure si esprimono sogni talmente semplici quanto impossibili: «Cosa non darei per arrivare a casa, trovare la cena già pronta e calda, delle lenzuola pulite e qualcuno che mi porti da mangiare a letto!»; altre hanno sogni più ambiziosi: «Se potessi iscrivermi all’università e apprendere una professione!».
La realtà è che molte donne e uomini, entrando in fabbrica, sognano di emanciparsi grazie a questo lavoro. Ciò, però, non è possibile. I proprietari fanno credere che qui si guadagna bene e che il lavoro è facile. Dopo un po’, l’ansia di fare ore straordinarie per guadagnare qualcosa in più, crea assuefazione. In seguito, ma molto tempo dopo, si capisce che non ci sarà alcuna emancipazione, ma solamente la routine di tutti i giorni, l’impossibilità di avanzare e un fisico sempre più debilitato.
Ministero alleato delle impreseSecondo il Codice del Lavoro, non si possono fare più di nove ore di straordinari a settimana. Nel settore imballaggi, in una settimana abbiamo fatto persino 36 ore di straordinario. Con una media di 15 ore lavorative al giorno e senza un’alimentazione adeguata è molto difficile sopportare questo ritmo di lavoro.
Il Ministero del Lavoro (MITRAB), che dovrebbe controllare il rispetto dei diritti dei lavoratori e sanzionare i datori di lavoro, è a conoscenza degli abusi a danno dei lavoratori e delle violazioni del Codice del Lavoro. Tuttavia, nell’attuale modello economico il MITRAB è diventato un alleato delle imprese e corporazioni della Zona Franca, sordo alle richieste dei lavoratori. «È più il tempo che perdi per arrivare al Ministero del Lavoro di quello che ci impiega l’impresa per rendersi conto dove stai andando... E quando torni, ti licenziano in tronco e non c’è nulla che possa proteggerti. La Zona Franca ed il MITRAB sono la stessa cosa», mi ha detto una ragazza.
Il Ministero, in quanto ente regolatore fra lavoratori e datori di lavoro, dovrebbe assumere una posizione meno politica e più di arbitro. Non può continuare a fare l’informatore sulle iniziative dei lavoratori e il guardiano delle imprese maquiladoras. Il Ministero dovrebbe esigere venga pagato il salario minimo e sapere quali sono i salari reali all’interno delle maquilas. I reclami e i commenti dei lavoratori, quando ricevono il loro salario ogni quindici giorni, dimostrano che essi non hanno alcuna idea di quanto prescriva la legge, che non sanno leggere le proprie buste paga, né sappiano perché e quanto venga loro dedotto per la previdenza, quando la maggior parte non è iscritta al sistema previdenziale.
Gli straordinari obbligatoriIn questa fabbrica non si può scegliere di fare straordinari: essi sono obbligatori. Chi non lavora di più, viene licenziato. Nessuno chiede il tuo parere. Verso le due di pomeriggio passa il foglio degli straordinari e tutto quello che devi fare è firmare. Per evitare che qualcuno esca al suono della sirena, alle 17:15, il supervisore conserva sotto chiave i cartellini dei lavoratori. Così nessuno può uscire, nemmeno di nascosto. Se non vuoi fare gli straordinari, devi chiedere un permesso di uscita al supervisore, che normalmente te lo nega, tanto che per fartelo concedere devi trovare un motivo “di forza maggiore” ed essere molto convincente.
Ogni ora straordinaria è pagata 9,92 córdobas (75 centesimi di dollaro). Sempre che vengano pagate, perché, secondo i lavoratori, molti straordinari, anche pesanti, non sono stati pagati. Secondo alcune ragazze che hanno lavorato anche in altre fabbriche, gli straordinari vengono pagati «quando ne hanno voglia»; in alcune fabbriche i lavoratori non ricevono delle regolari buste paga, ma solo denaro in contante: in questo modo, per i lavoratori è impossibile capire a quanto ammontino il salario e le detrazioni.
La realtà è che non c’è modo di sapere come siano regolati gli straordinari, né come vengano calcolati, visto che ci sono periodi in cui si lavora tutta la settimana, inclusi il Sabato e la Domenica, e la differenza di salario è di soli 100 córdobas quando, per il gran numero di ore straordinarie fatte, dovrebbe essere molto superiore. Ci sono lavoratori che tornano a casa a mezzanotte o all’una di notte, e devono alzarsi alle 4-5 del mattino. Sono molte le persone che alle 10 di mattina iniziano a prendere stimolanti per poter arrivare alla fine della giornata.
Pranzare di corsaSecondo l’orologio della fabbrica, la sirena del pranzo suona a mezzogiorno. È l’ora del disordine, della confusione più totale. La maggior parte delle persone esce disperata, correndo come se qualcosa la spingesse a fuggire. Si corre per arrivare primi al bar, per comprare il cibo o la bevanda che integra quanto si è portato da casa. Ci sono due bar e alcuni tavoli dove si vendono enchiladas, tacos, churritos (tutti preparati a base di tortilla, con carne, fagioli e spezie piccanti, ndr), e frutta. I bar non rispettano le condizioni igieniche. Ciò che più abbonda sono le mosche, cui si aggiungono i topi. Le cuoche cucinano, servono il cibo, maneggiano i soldi, senza mai lavarsi le mani. Quasi sempre vendono a credito, che sarà estinto, quando i lavoratori ricevono la paga, ogni 15 giorni; tuttavia, poiché è un affare poco conveniente, molti lavoratori si portano il cibo da casa.
Le mense si riempiono di persone che mangiano e parlano. Chi non trova posto per sedersi, si siede per terra sotto le palme nane dell’entrata. Bisogna mangiare in 40 minuti. Quando suona la sirena che chiama a tornare al lavoro, l’area in cui si mangia resta sporchissima, ovunque ci sono piatti, sacchetti e avanzi.
Un piatto comune con un succo di frutta costa 11 córdobas. Una porzione di tacos, enchiladas e tajadas (banane fritte, ndr) con formaggio o maduro (un altro tipo di banana cotta, ndr) costa 5 córdobas. La maggior parte dei lavoratori si associa per comprare una bottiglia da un litro e mezzo di bibita gassata, che conviene rispetto al costo di un bicchiere solo. Oltre a vendere cibo e bibite, i due bar offrono anche assorbenti, carta igienica, sigarette, caramelle e gomme da masticare.
Quando bisogna fare straordinari, l’impresa si accolla i costi della cena, anche se, come dice qualcuno: «La paghiamo sempre noi, con gli straordinari che non ci pagano...». In questi casi, la cena è commissionata ad uno dei due bar interni. Una delle cene fatte insieme alle ragazze con cui lavoravo ci è stata servita incartata: si trattava di maiale fritto. Al primo morso dato da una ragazza, si è accorta che all’interno la carne era verdastra, ma siccome non è permesso comprarsi qualcos’altro al bar, è rimasta senza mangiare. Non sapendo a che ora si finirà di lavorare, normalmente i lavoratori non si portano da mangiare da casa per la cena. Non sono riuscita a sapere chi decida cosa si mangerà nelle cene “straordinarie”, se siano i gestori del bar o direttamente i supervisori; sta di fatto che i lavoratori si lamentano quasi sempre della pessima qualità del cibo.
L’ora degli odoriL’ora degli odori è alle 5 del pomeriggio. Ovunque si vada, si sente l’odore di deodoranti, creme idratanti, dentifricio, profumi d’ogni genere che si mescolano con i cattivi odori della giornata trascorsa in fabbrica. Le donne si accalcano in bagno per lavarsi i denti o truccarsi. È impressionante constatare come lo sfinimento fisico non trattenga alcuna dal “rimettersi in sesto”. Il Venerdì, che sia o meno giorno di paga, c’è ancora più tempo per la vanità: infatti, quello è il giorno in cui si danno appuntamento le coppiette. In generale, è abbastanza raro che si debbano fare straordinari il Venerdì. Dicono che sia politica della azienda, anche se quando ci ho lavorato io non è stato così.
Alle 17:15, quando suona la sirena del settore produttivo, dove vengono cucite e montate le camice, la maggior parte degli operai, oltre mille, abbandona la fabbrica. Tutti si affrettano a preparare il proprio cartellino prima ancora che suoni la sirena, per essere così tra i primi in fila per l’uscita.
Il controllo quotidianoAll’uscita quotidiana non esiste solo il rito della timbratura del cartellino: bisogna passare anche per il controllo fisico. Gli uomini vengono controllati da una guardia giurata, le donne da una guardia femminile e da una taiwanese dell’azienda. Il primo giorno di lavoro, siccome ero nuova, sono uscita alle 17:15 insieme alla maggior parte delle lavoratrici. Ho timbrato il cartellino, ma non sapevo del controllo all’uscita. Vedevo solo le donne in fila all’uscita pedonale e gli uomini all’uscita degli automezzi. Ero un po’ distratta a guardare i lavoratori che uscivano dalle altre fabbriche e così non facevo attenzione alle donne in fila davanti a me. Che spavento quando è venuto il mio turno per il controllo! La cinese, una donna molto bassa che non mi arrivava alla spalla, ha iniziato a toccarmi, passandomi la mano dal pube fino al sedere e, poi, dal pube fino alla parte alta del ventre. Mi sono sentita invasa da una sensazione di schifo e mi è venuta la pelle d’oca. Avevo una gran voglia di darle uno schiaffo e urlarle. Mai avevo provato una sensazione così sgradevole, nemmeno quando incontri in strada quegli uomini morbosi che ti urlano dietro sconcerie. Per un attimo ho pensato che solo io ero stata toccata in quel modo dalla cinese e che solo io avevo reagito in quel modo, ma poi ha saputo che anche le altre lavoratrici che avevano iniziato a lavorare quel giorno condividevano le mie sensazioni: «Che schifo quando mi ha toccata quella cinese», ho sentito dire ad una ragazza; e un’altra: «Ho lavorato anche in altre fabbriche, ma nessuno mi ha mai toccato in quel modo».
Ti toccano per imporsiIl modo in cui ti tocca la guardia nicaraguense è diverso da quello della cinese. Ho capito che questa forma di violenza esercitata su ogni donna è un altro modo per dimostrare che i padroni possono fare quel che vogliono con le operaie. Inoltre, è una forma di controllo persino insensata: i miei jeans, poi, come quelli di quasi tutte, erano molto stretti: come avrei potuto nasconderci una camicia a maniche lunghe? Impossibile!
Nonostante questi palpeggi diventino quotidianità per le lavoratrici, io non sono riuscita ad abituarmici neanche dopo dodici giorni di lavoro. Ogni volta che risuonava la sirena, lo stomaco mi si contorceva all’idea del controllo prima di poter uscire in strada. Ci sono stati giorni in cui la sensazione di schifo mi toglieva la fame e arrivavo a casa senza aver mangiato e ancora con quella sensazione di schifo addosso. È evidente che le ragazze subiscono le violenze maggiori.
Anche gli uomini vengono controllati, ma una guardia nicaraguense passa con le mani solo lunghe le loro gambe. Secondo la direzione, tale controllo abitudinario vuole evitare che i lavoratori rubino merce in fabbrica. Nelle chiacchierate fatte con le ragazze, mi hanno raccontato che in alcune fabbriche sono quasi sempre gli uomini a rubare: si mettono le camice sotto i pantaloni, come se fossero dei pannolini, ed escono. La maggioranza delle donne li appoggia in questi furti: «È giusto che rubino. In ogni modo, lo fanno per noi e per qualche pezzo che si portano via, la fabbrica non perde granché». Ovviamente, si tratta di furti sporadici e la merce viene poi venduta tra gli stessi lavoratori della fabbrica.
Rabbia e umiliazioneI controlli fanno parte di una metodologia basata sull’umiliazione. Una sera, poco prima delle 22, tutte avevamo una voglia disperata di finire. Il supervisore teneva i nostri cartellini sotto chiave. Quando lo abbiamo circondato per avere ognuna il proprio cartellino per uscire più alla svelta, lui ha lanciato con rabbia tutto il pacchetto verso un altro tavolo. I cartellini si sono così sparpagliati per terra e tutte ci siamo dovute inginocchiare per trovare quello giusto, strappandocelo dalle mani, mentre il supervisore rideva della sua bravata.
Tale comportamento disumano si deve al troppo lavoro che questi signori sostengono di avere, oppure è l’amministrazione ad imporre loro questo stile di lavoro? La maggior parte degli attuali supervisori è arrivata in fabbrica come tutti gli altri lavoratori. Così è stato anche per una ragazza che ha iniziato a lavorare insieme a noi agli imballaggi. Dopo qualche giorno non sopportava più il lavoro, ma quando si è presentata all’ufficio personale per comunicare la propria rinuncia, un’incaricata dell’ingresso le ha detto di tirare avanti ancora qualche giorno perché doña Fidelina stava cercando una ragazza nuova, con qualche titolo di studio, per farle da assistente. La candidata per quel posto era proprio quella ragazza.
Si cambia personalità in frettaIl giorno dopo, la ragazza che voleva licenziarsi non è arrivata. Abbiamo pensato che avesse rinunciato al lavoro, ma a mezzogiorno l’abbiamo vista andare a pranzo con l’élite della fabbrica, quelle dell’ufficio personale. Esse hanno un tavolo riservato e nessun altro può sedersi con loro. Per noi era ancora una nostra compagna di lavoro e, per questo, eravamo contente di vederla. Lei invece non sembrava tanto contenta, era già “cambiata”. Ci è passata accanto, salutandoci freddamente e ha proseguito verso il tavolo riservato. «Già si dà delle arie...», abbiamo commentato.
Dopo un po’ sono riuscita a parlare con lei. Quella povera donna mi ha spiegato che le avevano proibito di avere rapporti con noi: «Mi dicono che devo ricordarmi che ora sono a un livello diverso da quello della gente inferiore». Evidentemente, gli investitori asiatici vogliono istituire un sistema di classi anche all’interno della Zona Franca. Forse, a casa loro appartengono a una classe sociale superiore, come vogliono far credere in Nicaragua? O vogliono, forse, farci retrocedere all’epoca della schiavitù, calpestando i nostri diritti a forza di disprezzarci?
Contratti che non si rispettanoQuando si firma un contratto in queste fabbriche, il posto di lavoro esatto è definito da un mutuo accordo tra datore di lavoro e lavoratore. Si firma in base alla propria esperienza, sempre che se ne abbia in relazione al settore per il quale cercano personale. Molte donne hanno già una vaga idea del posto che andranno a occupare o dicono dove vogliono lavorare.
Secondo il Ministero del Lavoro, per spostare un lavoratore da un posto all’altro, anche se si tratta di uno spostamento occasionale, ci deve essere un mutuo accordo. Tuttavia, le lavoratrici fanno lavori non previsti dai contratti. Pur di non lasciarti inoperosa, ti spostano in qualsiasi settore. Noi dell’imballaggio siamo state spostate in settori diversi perché non erano arrivati gli accessori che andavano fissati sulle camice. Dapprima, per una mattinata intera, ci hanno messo nell’area “mensa” a piegare scatoloni per imballare le camice Perry Ellis: per confezionare gli scatoloni, con il loro coperchio, dovevamo seguire le istruzioni disegnate sul cartone. A ciascuna di noi hanno dato 5 casse, ognuna contenente 250 pezzi da montare: in totale, 1.250 scatoloni. A prima vista, il compito sembra facile e poco faticoso, ma dopo due ore senti un formicolio alla spalla, mentre le mani sono piene di ferite, a volte anche profonde, per il continuo sfregamento del cartone.
In lavanderiaLo stesso giorno, dopo pranzo, ci hanno mandato in lavanderia. Dovevamo lavare le parti delle camice segnalate come sporche o piene di grasso. In quei giorni c’era un ordine di camice bianche. Dovevamo sbiancarle con cloro e acetone. Abbiamo passato due giorni e mezzo in lavanderia, dalle 7 del mattino alle 7 di sera, per poi continuare fino alle 22 agli imballaggi.
Dopo due giorni in lavanderia avevamo le mani completamente piagate. La combinazione di cloro e acetone, senza alcuna protezione alle mani, ci ha bruciato le mani e lasciato funghi nelle dita e nelle unghie. In lavanderia eravamo 28 donne alle prese con un caldo insopportabile, perché vicino alle caldaie, dove il fuoco e il fumo si concentrano. In lavanderia, si trovano anche le rumorosissime aspiratrici che vengono usate per togliere l’eccesso di lanuggine dalle camice.
La paga è calcolata a cottimo e devi lavare almeno 700 camice al giorno. Se non riesci a lavare quella quantità perdi l’incentivo di produzione. Ogni volta che finisci con un certo numero di camice, un’impiegata lo annota. Sembrerebbe un sistema giusto, ma succede anche che se non sei simpatica a chi prende nota della quantità fatta, quella scrive ciò che vuole, abbassa la tua quota di produzione e non puoi farci nulla.
Nei fatti, io le ero antipatica, perché ogni volta che andavo a chiedere altre camice da lavare, lei ne segnava di meno di quante ne avessi già fatte, o non ne segnava affatto. La stessa cosa è successa ad altre compagne di lavoro. Per tutta risposta, noi ricorrevamo a qualche trucchetto per aumentare la nostra produzione: del tipo, inumidire, ma senza lavarle veramente, camice che non erano sporche.
Le condizioni in lavanderia peggiorano verso sera: non c’è più luce naturale e quasi non ci si vede più. In inverno, le donne sono fradice, perché la parte alta della lavanderia non è coperta e la pioggia entra a catinelle.
A rischio da quando prendi il busDurante i dodici giorni che ho lavorato in fabbrica per realizzare questa inchiesta ho viaggiato sugli autobus del trasporto urbano collettivo, che sono i mezzi di trasporto che usano tutte le donne della fabbrica. Per riuscire a rispettare l’orario di lavoro è fondamentale alzarsi molto presto. Io prendevo l’autobus delle 6:15. I bus sono sempre strapieni, con gente appesa a entrambe le porte. I bus sono vecchi e in condizioni meccaniche deplorevoli, per cui è anche rischioso viaggiarci. L’affollamento permette alle squadre di borseggiatori, uomini e donne, di mettere a segno vari “colpi”. Agli uomini, poi, viene più facile palpeggiare le donne.
Un giorno, che ero un po’ in ritardo, sono saltata sul primo autobus che si è fermato. Era pienissimo. Sono salita dalla parte posteriore, ma sono riuscita ad arrivare solo al primo gradino e sono rimasta appesa alla porta. Dopo pochi incroci il bus ha frenato così bruscamente che sono caduta indietro in strada. Il bigliettaio (di solito, una persona che viaggia appesa alla porta e che ritira i soldi ai passeggeri man mano che salgono, ndr) mi ha urlato: «Sembrate delle zombie, non sapete nemmeno aggrapparvi come si deve e poi date la colpa a noi!». Nessuno mi ha aiutata ad alzarmi. Io non potevo riprendere quel bus, ma per le lavoratrici non c’è scelta: scuotersi i vestiti dalla polvere e risalire sul mezzo che le ha appena fatte cadere. In fabbrica ho saputo che ci sono aziende della Zona Franca Las Mercedes che hanno propri mezzi di trasporto e che raccolgono le lavoratrici in alcuni quartieri della capitale e le portano al lavoro gratuitamente. Ma, è un’informazione che non ho potuto verificare.
Tutto ciò porterà sviluppo?Qui finisce il mio racconto. Non vorrei che da questa storia scaturisse una critica distruttiva. Ho solo voluto raccontare la mia esperienza affinché si riesca ad immaginare ciò che migliaia di donne e uomini devono vivere o hanno dovuto vivere ogni giorno per settimane, mesi o anni nelle più di quaranta fabbriche tessili che ci sono in Nicaragua. Industrie da cui ci si aspetta lo sviluppo del nostro paese e per la nostra gente.
Scheda / L’orario e i “10 comandamenti”
Alle due entrate della fabbrica, a grandi lettere, sono affissi gli orari di lavoro e i “dieci comandamenti” dell’impresa.
Orario: 7:00 – 17:15 e 0:40 – 7:15 a.m.
1. Rispettare l’orario di entrata e uscita. Non lasciare il proprio posto di lavoro senza permesso.
2. Sono rigorosamente proibite le assenze dal lavoro. Ci si può assentare dal proprio posto di lavoro solamente con l’autorizzazione del proprio, immediato superiore.
3. Sono rigorosamente proibiti il gioco d’azzardo, il consumo di bevande alcoliche, le liti in fabbrica e nelle sue vicinanze.
4. È rigorosamente vietato prendere, senza permesso, materiali e oggetti di proprietà della fabbrica o danneggiare la proprietà della fabbrica.
5. È severamente vietato sputare o gettare rifiuti per terra.
6. Bisogna mantenere la salubrità e la pulizia in fabbrica e nelle sue vicinanze.
7. Per chiedere una visita medica bisogna presentare una “impegnativa” del ministero della sanità.
8. È proibito portare armi da fuoco e altri oggetti pericolosi in fabbrica.
9. Bisogna prestare la massima attenzione alla propria sicurezza e a quella dei propri compagni di lavoro.
10. Per quanto riguarda il regolamento di lavoro, vanno osservate le vigenti disposizioni dell’impresa.