«Abbiamo fatto germinare le nostre idee per imparare a sopravvivere in mezzo a tanta fame, per difenderci da tanto scandalo e dagli attacchi, per organizzarci in mezzo a tanta confusione, per rincuorarci nonostante la profonda tristezza.
E per sognare oltre tanta disperazione.»


Da un calendario inca degli inizi della Conquista dell'America.
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MÉXICO / Uno Stato contro le sue radici, indigene

In México vivono dieci milioni di indios che non vogliono cessare di essere tali, ma solo smettere di essere poveri. Con la Ley Indigena, approvata dal governo, dal parlamento ed ora anche dal potere giudiziario, lo Stato messicano ha dato loro uno “schiaffo”: non li rispetta come indigeni, né li sostiene nella lotta contro la povertà.

Di Jorge Alonso, corrispondente dal México. Traduzione di Marta Fracasso. Redazione di Marco Cantarelli.

Nel dare ad intendere di voler risolvere il conflitto in Chiapas, il governo messicano aveva inviato a suo tempo al Congresso una iniziativa di legge basata sulla proposta della COCOPA, cioè la Commissione per la Concordia e la Pacificazione, che era stata accettata dagli zapatisti come una trasposizione degli Accordi di San Andrés. Tuttavia, il Congresso aveva snaturato quella proposta, eliminando i suoi aspetti essenziali. I popoli indigeni messicani e gli zapatisti avevano, di conseguenza, respinto l’inganno. Da allora, l’EZLN aveva risposto con il silenzio. Molti municipi indigeni avevano, invece, presentato ricorso alla Corte Suprema della Nazione, sollevando oltre trecento controversie costituzionali contro l’approvazione di tale Ley Indigena, così mutilata.
Nell’attesa della sentenza della Corte e quando si pensava ormai che lo zapatismo si fosse indebolito, uno dei suoi insegnamenti ha acceso una miccia proprio nella Valle di México: la comunità di Atenco, dopo essere riuscita a far recedere il governo dall’intenzione di costruire un aeroporto nelle sue terre, si è pronunciata per costituirsi in municipio autonomo. L’autonomia è, infatti, la forma che le comunità zapatiste si sono date per consolidare la propria resistenza. Si tratta, cioè, di costruire un potere popolare con autonomia diretta, orizzontale e con capacità di autogestione in progetti produttivi, sanitari ed educativi. Ora, la Corte Suprema si è finalmente pronunciata, evidenziando come lo Stato messicano sia contro gli indios. Ripercorriamo l’attesa, densa di incognite, di tale sentenza.
Assedio militare, tensioni, incertezzeIn giugno, il gruppo incaricato dal vescovo Samuel Ruiz, che un tempo operava come Commissione Nazionale di Intermediazione (CONAI) per il dialogo fra governo e zapatisti, convoca per i primi di luglio un incontro nazionale per studiare nuove strategie civili per la pace, la democrazia ed il pieno rispetto dei diritti umani in Chiapas. Al forum partecipano oltre tremila persone, esponenti di 285 organizzazioni di vari Stati messicani e, pure, di altri paesi.
Durante l’incontro, il prelato mette in guardia dal ricorso alla violenza: in Chiapas, sostiene, esiste una società civile che comprende perfettamente come la pace non sia un regalo, ma una conquista. Per Ruiz, il presidente Fox si dimostra, tuttavia, un governante debole, mentre il silenzio zapatista appare il frutto della delusione provocata dal governo.
Secondo i partecipanti all’incontro, le crescenti tensioni in Chiapas sono conseguenza del rifiuto dello Stato messicano di riconoscere i diritti delle popolazioni indigene e della volontà di continuare l’offensiva controinsurrezionale. In tal senso, è evidente come non possano sussistere condizioni per il dialogo finché non ci siano pace e giustizia. Come denunciato dalle comunità zapatiste, infatti, il costante e crescente assedio dei paramilitari e dell’esercito crea un clima di incertezza e tensione, del tutto funzionale alla strategia controinsurrezionale statunitense.
Cuauhtémoc Cardenas, dirigente del Partito della Rivoluzione Democratica (PRD) denuncia, inoltre, quelli che definisce «circoli oscuri dello Stato», che incoraggiano e sostengono i gruppi paramilitari nelle loro aggressioni contro le comunità, per strappare loro le terre e rompere la coesione interna alla popolazione indigena.
Dal canto suo, l’accademico Pablo González Casanova esorta il potere giudiziario a respingere per manifesta incostituzionalità le cosiddette “riforme indigene”, propone di utilizzare ogni forma di dialogo per far rispettare gli Accordi di San Andrés, e chiede di non procedere nell’esecuzione del Piano Puebla-Panamá (vedi articolo sotto, ndr) se prima non saranno riconosciute legalmente le terre delle comunità indigene.
Dal forum si leva, in sostanza, una sinfonia di voci che esortano il governo a risolvere il conflitto. Cui si associa quella del governatore del Chiapas, che chiede al governo federale un cambiamento di rotta sulla legge indigena.
Il forum si conclude con una serie di accordi:
- continuare ad esercitare pressioni sul governo perché invî i “tre segnali” richiesti dagli zapatisti;
- lottare perché la Suprema Corte emetta una sentenza favorevole alla popolazione indigena;
- esigere la totale smilitarizzazione delle comunità;
- smantellare e condannare i gruppi paramilitari;
- creare le condizioni di rientro degli sfollati;
- liberare i prigionieri di coscienza;
- ricostruire il tessuto sociale;
- stabilire meccanismi di dialogo onde evitare la logica della guerra;
- lottare per vanificare i piani del governo che dividono e disarticolano le comunità;
- rinforzare l’autonomia dei municipi zapatisti;
- favorire una nuova cultura politica a partire da un’etica di rispetto delle diversità culturali del México.
“Non vogliamo smettere di essere indios”Il 9 agosto, il presidente Fox assiste ad una cerimonia in occasione della giornata internazionale delle popolazioni indigene. Gli indigeni, quindi, chiedono al governo e alla società messicana di assumere l’impegno di riconoscere i villaggi e le comunità indigene come “normali” persone ai sensi del diritto pubblico: «Non vogliamo smettere di essere indigeni, vogliamo solo smettere di essere poveri», ribadiscono. Secondo uno studio del Consiglio Nazionale della Popolazione, infatti, più della metà delle zone indigene è rimasta stazionaria quanto a condizioni di vita, mentre un terzo di loro è diventato più povero.
Fox risponde che il suo governo cerca di rompere con la tradizione paternalistica ed autoritaria ed offre una relazione basata sul dialogo.
Tuttavia, al tempo stesso, si moltiplicano le denunce di un incremento della pressione militare in Chiapas, dai chiari segnali pre-bellici; una situazione del tutto simile, secondo molti, a quando governava il Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI). Varie organizzazioni civiche costatano come gli accordi di pace di fine 2001 e inizi del 2002, promossi dal governo, siano rimasti sulla carta, perpetuandosi l’ingiustizia e l’impunità. Le denunce di aggressioni ai municipi in resistenza sono, infatti, quasi quotidiane. Fra esse, un’accusa inquietante: aerei ed elicotteri avrebbero lanciato casse contenenti mosche sulle comunità zapatiste, al fine di provocare malattie. Per il Centro “Fray Bartolomé de las Casas”, la guerra “sporca” ha provocato fra 12 e 14 mila sfollati, esistendo una precisa strategia militare di assedio alle comunità.
San Juan Diego o San Andrés?Dal canto suo, la gerarchia ecclesiastica messicana non ha fin qui mostrato grande sensibilità verso le proteste indigene, nonostante nella sua visita in Messico, il Papa abbia sottolineato: «Il Messico ha bisogno degli indigeni». In Guatemala, ha chiesto giustizia per gli indigeni del Guatemala e dell’America. Secondo alcune fonti, con queste parole il Papa avrebbe inteso stimolare anche la chiesa messicana a impegnarsi di più a favore degli indigeni.
Tuttavia, secondo la Coalizione delle Organizzazioni Autonome Indigene di Ocosingo, i promotori della canonizzazione di Juan Diego (proclamato santo dal Papa proprio nella sua recente visita, ndr) sono a tutt’oggi fra i più attivi oppositori del movimento indigeno, tanto che con una lettera aperta la coalizione chiede all’episcopato messicano e al Papa un altro segnale, sentito ancora più necessario di quella canonizzazione: il rispetto degli accordi di San Andrés.
Anche l’Assemblea degli Immigrati Indigeni del Distretto Federale ha inviato un messaggio al Papa, in cui si descrivono la repressione e gli abusi subiti.
Nel congedare il Papa, il presidente Fox ha sostenuto che la sua visita è uno stimolo ad un rinnovato impegno a lavorare per gli indios, per i poveri e per i nullatenenti, nel rispetto dei loro costumi e tradizioni.
Un focolaio di instabilità: il Chiapas senza paceVarie organizzazioni messicane continuano ad appoggiare le comunità del Chiapas. In agosto, il Fronte Zapatista di Liberazione Nazionale (FZLN, formazione politica vicina all’EZLN, ndr), invia nelle zone di conflitto diverse carovane con medicinali e cibo. Anche diversi organismi internazionali seguono con attenzione l’evoluzione della situazione. L’incaricato dell’ONU per i diritti umani dei popoli indigeni, Rodolfo Stavenhagen, dichiara di ritenere molto difficile il raggiungimento della pace in Chiapas. Rappresentanti di Amnesty International visitano il Chiapas a metà 2002, dedicando particolare attenzione alla militarizzazione e alla paramilitarizzazione.
In agosto, anche l’Unione Europea segnala come il problema indigeno e l’assenza di pace in Chiapas rappresentino due focolai che generano instabilità in tutto il paese, mentre il potere legislativo messicano non è riuscito a soddisfare le richieste indigene.
Anche la Commissione Civica Internazionale per il Rispetto dei Diritti Umani mette in evidenza nel suo rapporto sulla visita in México reso pubblico a fine luglio, come le riforme costituzionali approvate nel 2001 non rispondano alle richieste indigene. Secondo la Commissione, i programmi di sviluppo mirati alla lotta alla povertà sono, in molti casi, discriminatori, giacché non tengono conto della crescita integrale della comunità e sono utilizzati spesso come forme di proselitismo elettorale. In un contesto di interruzione del dialogo e mancata applicazione degli accordi di San Andrés, tali piani si convertono, quindi, nell’ennesima modalità controinsurrezionale, meno vistosa ma comunque efficace per dividere le comunità, incidendo nella distruzione di un tessuto sociale già fragile. Altro punto sollevato dal citato organismo è il Piano Puebla-Panamá: le terre indigene, si osserva, sono nel mirino di grandi interessi economici.
La Corte respinge le proveIn realtà, la via del ricorso legale alla Corte Suprema non risulta affatto facile. Il dialogo con i magistrati è complicato, dal momento che questi respingono prove, testimonianze e perizie addotti dagli indigeni a sostegno delle loro tesi.
Da parte sua, il governo federale si mostra diviso di fronte alle controversie presentate dagli indigeni. Il rappresentante legale della Presidenza chiede alla Corte di esprimersi contro gli indigeni, sostenendo che una riforma costituzionale sta “a monte” di qualsiasi misura legislativa semplice, quale l’accordo in questione; pertanto, delle opinioni degli indigeni si può tenere conto solo nelle costituzioni locali e nella legislazione secondaria.
La Procura Generale della Repubblica (PGR) si esprime in sintonia con la Presidenza, sollecitando però la Corte a definire la portata dei trattati internazionali, in riferimento alla Convenzione 169 dell’OIT (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ndr), quando essi contrastano con punti stabiliti nella Costituzione.
In agosto, la Corte Suprema verifica quindi se ha facoltà per rispondere ai ricorsi presentati dagli indigeni. Sempre in agosto, si riuniscono i rappresentanti di diversi popoli indigeni; nella dichiarazione finale dell’incontro, si accusa il governo di fingere di prestare attenzione alle rivendicazioni indigene e, non rispettando le procedure stabilite per legiferare in materia indigena, di andare contro la stessa volontà dei popoli indigeni; in tale contesto, sostengono quest’ultimi, la giustizia ha la possibilità di riscattare lo Stato messicano, nonostante non abbia voluto accogliere le prove, testimonianze e perizie presentate. In definitiva, gli indigeni chiedono alla Corte di riconoscere la Convenzione 169 dell’OIT come «legge suprema» e di far rispettare gli Accordi di San Andrés. Al contrario, aggiungono, una sentenza negativa porrebbe fine alla fiducia che gli indigeni hanno riposto nella Corte. La dichiarazione si conclude con la richiesta alla società civile di vigilare sull’operato della stessa Corte. Il movimento indigeno sa che una decisione favorevole della Corte rafforzerebbe la sua lotta, mentre una sentenza negativa non l’indebolirebbe, ma più probabilmente radicalizzerebbe.
Paramilitari in azione nel caldo sole di agostoMentre il movimento indigeno attende la risoluzione della Corte, la situazione nella zona zapatista si fa, se possibile, ancora più drammatica. Conviene ripassare gli avvenimenti degli ultimi mesi.
Nel municipio autonomo “Ricardo Flores Magón”, paramilitari, appoggiati dall’esercito, cercano di catturare un esponente della comunità autonoma e feriscono sette collaboratori dell’EZLN. I giornali locali assecondano l’attacco con una campagna contro le basi di appoggio zapatiste, manipolando i fatti.
In agosto, indigeni appartenenti al gruppo Las Abejas denunciano la presenza in comunità vicine di membri del gruppo armato che aveva massacrato i loro compagni ad Acteal, nel 1997. Il governo federale aveva lasciato in sospeso 27 ordini di arresto a carico di membri di questo gruppo paramilitare, che in effetti si sta riarmando. Diversi autori materiali e mandanti della strage di Acteal sono ancora in libertà e si teme il ripetersi di quanto è già successo.
Sempre in agosto un militante zapatista viene assassinato. Secondo le autorità, per errore durante una battuta di caccia. Tuttavia, gli zapatisti chiedono di fare luce sul caso.
In seguito, diversi militanti del PRI, diretti da un deputato locale, attaccano gruppi di base zapatisti che bloccano la strada per impedire il passaggio, in uscita, di camion con legname pregiato sottratto ai boschi della zona, nonché, in entrata, di liquori e altre droghe. Secondo vari osservatori, si tratta dell’operazione paramilitare più grande dopo il massacro di Acteal. È ormai chiaro come si siano creati nuovi gruppi paramilitari e riattivati i vecchi.
Il 20 agosto, sette tra i municipi autonomi ribelli – “Olga Isabel”, “Che Guevara”, “17 de Noviembre”, “Vicente Guerrero”, “1 de Enero”, “Miguel Hidalgo” e “Lucío Cabañas” – accusano paramilitari, proprietari ed imprenditori, servizi di sicurezza, polizia, presidenti municipali e poteri statali e federali di fare di tutto per provocare la violenza, costata la vita a tre dei loro compagni, in un perdurante clima di impunità.
Giorni dopo, si verifica un altro fatto violento, con morti e feriti, che gli zapatisti denunciano come un’imboscata di paramilitari. Secondo la versione ufficiale, si tratta invece di faide familiari.
Lo stesso giorno, in un altro municipio autonomo, un gruppo paramilitare uccide un esponente zapatista. «Ci volete ammazzare ad uno ad uno?», protestano gli zapatisti, che denunciano l’impunità di cui godono i paramilitari protetti dall’esercito, grazie al quale le azioni vengono coordinate, programmate e coperte dalla complicità del governo.
Assedio paramilitare, conflitti nelle comunità e drogheIn tale contesto, vari comitati locali per i diritti umani danno notizia di importanti movimenti di truppe. “Macché”, ribattono le autorità militari, “si tratta di normali manovre”. “Nient’affatto”, rincarano organizzazioni della società civile locali, per le quali tali movimenti sono azioni di controguerriglia malamente celate come conflitti intercomunitari.
A fine agosto, la COCOPA annuncia un’indagine sugli assassinî di zapatisti e sui movimenti di truppe. Dopo una settimana di visita in Chiapas, il rappresentante ONU per i rifugiati interni segnala come il problema degli sfollati del Chiapas presenti molte sfaccettature e superi ormai la capacità dello Stato messicano di farvi fronte, il che tuttavia non esime quest’ultimo dal suo obbligo di cercare la pace. L’alto funzionario indica le tre principali, a suo dire, cause del fenomeno: l’assedio di gruppi paramilitari, i conflitti nelle comunità e gli scontri per il traffico di droghe.
Comunque sia, fra fine agosto e primi di settembre, l’attività dei paramilitari prosegue impunemente. Secondo alcune organizzazioni non governative, fra le fila di quest’ultimi militano ex dell’esercito e dei corpi di sicurezza.
Per il governo del Chiapas, invece, i conflitti sono “pane quotidiano” nelle comunità, privi di connotazioni politiche, e le morti sono da attribuire ad incidenti o a conflitti per la terra. Nega, inoltre, l’esistenza di gruppi antiguerriglia e l’incremento della presenza militare nella zona.
Anche il Procuratore del Chiapas dichiara di ritenere che i responsabili di quelle morti siano bande di delinquenti.
Voci di allarme e speranzaAlla Commissione Permanente del Congresso dell’Unione, il PRD propone un accordo per frenare la ripresa della violenza in Chiapas contro gli zapatisti, ma il Partito di Azione Nazionale (PAN, al governo, ndr) ed il PRI non accettano.
Organizzazioni per i diritti umani chiedono, quindi, al governatore del Chiapas di smetterla di favorire palesemente l’impunità, negando persino l’esistenza di bande armate legate al PRI: l’intensificarsi della violenza – sostengono – non è altro che un tentativo di fermare il processo di autonomia delle comunità zapatiste, spianando la strada al Piano Puebla-Panamá. I centri per i diritti umani “Miguel Agustín Pro” e “Fray Bartolomé de las Casas”, insieme ad altre organizzazioni della società civile, rivolgono quindi un appello urgente al popolo messicano e alla società civile nazionale e internazionale per una mobilitazione urgente che ponga fine agli scontri, alle provocazioni, agli omicidi nelle comunità indigene, nuovi esodi di sfollati, e la ripresa delle azioni violente dei paramilitari con la copertura dell’esercito messicano.
«Il mondo sta guardando», rispondono organizzazioni internazionali per i diritti umani da Francia, Svizzera, Spagna, Stati Uniti, Canada. Personalità di 18 paesi, fra cui José Saramago, Manuel Vázquez Montalbán e Giulio Girardi rivolgono un appello per mantenere il sostegno internazionale alla causa zapatista. In occasione della pubblicazione del secondo rapporto del governo Fox, il Fronte Zapatista di Liberazione Nazionale chiede la fine della repressione. Dal summit sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg, Fox ribadisce la necessità di ascoltare gli indigeni.
A metà agosto, la Procura Generale della Repubblica fa catturare 25 membri del gruppo paramilitare “Pace e Giustizia” (sic!, ndr), responsabile di diverse decine di omicidi. Uno dei suoi dirigenti, un ex militare, viene trovato in possesso di armi di uso esclusivo dell’esercito. In segno di sfida, il gruppo aveva appena rinnovato la propria dirigenza. La Procura fa, quindi, arrestare il principale sostenitore economico del gruppo, un ex sindaco.
Il PRI del Chiapas giustifica l’esistenza di bande armate sotto la sua protezione ed esercita pressioni affinché i paramilitari vengano liberati. Organizzazioni non governative locali elogiano l’azione del governo, segnalando però come vi siano altri gruppi paramilitari che continuano ad agire indisturbati. A fine agosto, basi di appoggio zapatiste lanciano nuovamente l’allarme su possibili nuovi attacchi nella parte settentrionale del Chiapas per arrestare indigeni zapatisti, approfittando della confusione e del terrore creati. In questo contesto, dichiara il vescovo Samuel Ruiz, una sentenza della Corte Suprema favorevole ai ricorsi presentati dai municipi indigeni aiuterebbe molto a superare la crisi.
Arriva la sentenza, ma contro gli indigeniSperanze vane. Il 6 settembre, la Corte Suprema di Giustizia della Nazione dichiara il “non luogo a procedere” delle cause avanzate dai gruppi indigeni. Otto magistrati votano per non prendere in esame le accuse. Tre votano perché vengano esaminate, ma solo per concludere che la riforma approvata dal Congresso è valida. In tal modo, la Corte si dichiara non competente per dirimere le oltre trecento controversie ricevute e le respinge in blocco, ancorché prive di difetti formali.
I magistrati adducono di attenersi a criteri giuridici, non potendo sostituirsi all’azione costituente, propria del potere legislativo, né entrare nella disputa su eventuali errori di procedura nella riforma indigena, per non essere tacciati di attivismo giudiziario ed evitare di erigersi come potere supremo sugli altri poteri. In breve, per non sostituirsi al legislativo, come organo riformatore.
Sebbene alcuni avvocati giudichino ineccepibile la decisione della Corte, gli avvocati difensori dei popoli indigeni la criticano duramente: per l’avvocato del popolo Mixe, Adelfo Regino Montes, la Corte non avrebbe certo potuto emettere un giudizio corretto, essendosi rifiutata di ascoltare gli indios, limitandosi unicamente a ricevere la loro documentazione.
Un precedente pericolosoIn realtà, l’interpretazione data dalla Corte delle norme costituzionali appare restrittiva. Le implicazioni della sentenza sono gravi. Nel determinare che la procedura e il ricorso alla Costituzione Federale non sono passibili di controllo giuridico e, di conseguenza, la controversia costituzionale non ha luogo a procedere, di fatto, la Corte ha attribuito ai legislatori il potere di riformare la Costituzione, anche commettendo vizi ed irregolarità, senza che nessuno possa intervenire per porvi rimedio. Con questo precedente, si potrà modificare la Costituzione, non importa se correttamente o meno. Si tratta di una posizione che nega principi democratici come la divisione dei poteri ed il sistema di contrappesi necessari per il suo stesso equilibrio.
Nell’aver optato per la via più facile, cioè quella di non prendere in esame i ricorsi, la Corte Suprema ha evaso le proprie responsabilità di far rispettare la legge, facendo così un torto ai popoli indigeni, che non chiedevano favori, ma il ristabilimento dell’ordine costituzionale: «Essi hanno bussato all’ultima porta rimasta, in cerca di un riconoscimento costituzionale, dal momento che il Congresso ha voltato loro le spalle con la riforma, seguito dall’esecutivo che l’ha emanata; in tal modo, lo Stato messicano nel suo complesso ha evidenziato la sua incapacità a trasformarsi» ha commentato un altro avvocato indigeno, Francisco López Bárcenas.
Secondo altri avvocati, non si era chiesto tanto alla Corte di giudicare il contenuto della riforma in materia indigena, né di modificarla o di indicarne la giusta interpretazione, quanto di verificare la procedura seguita per giungere a tale riforma costituzionale. Le controversie mettevano in dubbio, infatti, la legalità dell’iter che ha portato alla riforma. Infatti, secondo l’articolo 133 della Costituzione messicana, i trattati internazionali entrano di pieno diritto a far parte della stessa. Tuttavia, pur stabilendo la citata Convenzione della OIT che le decisioni legislative in materia di popoli indigeni non possono essere prese senza consultare gli stessi, ciò non è avvenuto.
Un’altra obiezione sollevata si riferisce al fatto che in molti congressi locali (cioè, i parlamenti degli Stati che compongono la federazione messicana, ndr) la riforma è passata senza la maggioranza richiesta dei due terzi dei legislatori locali: questo costituisce un’evidente irregolarità procedurale.
Di fronte all’argomento della Corte, per cui l’organo riformatore della Costituzione non è passibile di alcun controllo giuridico, gli avvocati hanno ribattuto che tale interpretazione delle norme costituzionali è alquanto restrittiva, posto che quanti hanno partecipato al processo di riforma costituzionale sono autorità che, in quanto tali, sono soggette alla legge e alla Costituzione. Per questo, la Corte aveva il diritto-dovere di verificare i loro atti.
D’altro canto, esperti in diritto indigeno hanno evidenziato il carattere politico, più che giuridico, della sentenza. Per tutto ciò, la Corte Suprema ha adottato una decisione che resterà negli annali di storia come una ferita aperta contro i popoli indigeni. Il potere giuridico si è fatto scoglio per non riconoscere i diritti delle popolazioni indigene. Le controversie hanno rappresentato una grossa sfida per la Corte. Con un corretto sforzo di interpretazione, essa avrebbe potuto aprire nuovi spazi e opportunità.
Non l’ha fatto. Non sono, inoltre, mancate le denunce di influenze sui ministri della Corte da parte dei leaders del Congresso che, privatamente, hanno intrattenuto relazioni con i primi.
Una sentenza “razzista ed arrogante”Di fronte alla sentenza della Corte, la posizione del governo federale appare ambivalente. Per il consigliere giuridico della Presidenza, Juan de Dios Castro, il paese dovrebbe rallegrarsi per la decisione della Corte, perché ciò dimostra il buon funzionamento delle istituzioni. La Segreteria di Governo ha aggiunto che per il Presidente la questione indigena resta prioritaria e che Fox continuerà a lavorare per forgiare una nuova relazione con le popolazioni indigene. Al contrario, per il Commissario per la Pace, la decisione della Corte non fa che aumentare il clima di angoscia che si vive in Chiapas. Anche per l’incaricata dell’ufficio governativo per l’assistenza agli indigeni, Xóchitl Gálvez, la Corte ha dimostrato approssimazione nell’analizzare le controversie, tanto che la sua sentenza rende ora più difficile il processo di pacificazione.
 In queste, come in altre parole, è parso evidente il timore di una ripresa dei movimenti armati.
In questo clima, il 23 settembre, davanti a comunità indigene che protestavano per il mancato rispetto degli accordi di San Andrés, il presidente Fox ha promesso di cercare nuovi accordi politici per perfezionare la legge indigena, pur avvertendo che fino a nuovo cambio essa va accettata e vista come «un passo in avanti».
I legislatori del PAN e del PRI si sono mostrati compiaciuti per la risoluzione e hanno annunciato che è venuto il momento di elaborare le leggi di regolamentazione corrispondenti e che spetta ora ai congressi locali verificare le condizioni legali che più si adattino alle popolazioni indigene che vivono nei loro territori.
Per la presidente del PRD la pace nelle comunità indigene resta un problema aperto, temendo nuovi scoppi di violenza. I legislatori del PRD hanno prospettato la necessità di una “riforma della riforma” e annunciato la presentazione, a breve termine, di una nuova iniziativa di legge che incorpori i punti centrali della proposta della COCOPA.
Per il coordinatore dei deputati del PRD, sarebbe necessario un nuovo viaggio dell’EZLN a Città del Messico, per riaprire quella porta di dialogo chiusa dalla Corte. Anche per il capo di governo del Distretto Federale, la Corte ha commesso un errore al ratificare quanto approvato dal Congresso.
Nella storia messicana, secondo Cuauhtémoc Cárdenas, raramente la Corte Suprema si è espressa in relazione a questioni tanto visibili e di tale impatto nella vita politica. Per questo, la sua decisione suscita molti interrogativi ed è chiaro che essa riporta alla memoria cinque secoli di oppressione, sfruttamento, disuguaglianza e discriminazione, riaprendo quella ferita sociale che impedisce l’unità del popolo messicano nel rispetto delle diversità e offende dieci milioni di messicani.
Diversi esponenti della COCOPA, temendo che la ferita aperta aggravi la situazione nelle zone di conflitto, hanno esortato questo organismo a reagire in fretta. Per alcuni deputati del PRI è necessario riaprire la discussione e analizzare i ricorsi presentati dagli indigeni. Altri propongono la stesura di una nuova legge, sebbene i rapporti di forza siano sfavorevoli a tale proposta.
Gruppi di solidarietà con i popoli indigeni messicani in Spagna, Austria, Svizzera, Italia e Germania hanno protestato per la sentenza della Corte, bollandola come razzista e arrogante. Organizzazioni dei diritti umani di Europa e Stati Uniti hanno chiesto di adeguare la legislazione indigena agli Accordi di San Andrés, dato che la riforma vigente si è risolta in un ostacolo per riannodare il processo di pace e risolvere così il conflitto in Chiapas.
Gli scrittori José Saramago, portoghese, ed Ernesto Sábato, argentino, hanno inviato una lettera al quotidiano La Jornada in cui parlano dell’ennesimo «schiaffo di disprezzo» ricevuto dai popoli indigeni, sottolineando come lo Stato messicano li consideri un «nemico interno»: lo stesso Stato «che ha dato così pochi segni di orgoglio nazionale di fronte alle implicazioni vessatorie, tanto politiche che economiche che gli vengono da fuori, ha usato tutti i suoi muscoli giuridici contro i più deboli della nazione messicana».
Da parte sua, Danielle Mitterrand si è detta rattristata per la sentenza, giudicata «uno schiaffo alla speranza indigena», annunciando tuttavia che continuerà a difendere la causa giusta degli zapatisti e a camminare con loro.
Dinanzi a queste e a molte altre dichiarazioni di personalità internazionali, il deputato del Diego Fernández de Cevallos, uno dei principali promotori della legge indigena convalidata dalla Corte ha reagito con sdegno, sostenendo che «una francese e due portoghesi (sic!) lanciano dichiarazioni su posizioni prestabilite da Marcos», aggiungendo con tono dispotico che non si può fare una legge «secondo i gusti di un vescovo (in riferimento a Samuel Ruiz, nda) o di un guerrigliero».
“Il colpo di grazia”La gerarchia cattolica non ha preso una posizione unitaria. Il vescovo Onésimo de Cepeda, legato a gruppi di potere economico e politico, ha difeso la Corte. Il vescovo di San Cristóbal de las Casas ha dapprima invitato a rispettare la sentenza, dichiarando in seguito che la legge può tuttavia essere migliorata. Dalla zona indigena dell’istmo, il vescovo Arturo Lona ha così sintetizzato i sentimenti dei pastori vicini agli indios: «Che Dio ci aiuti, ormai ci han dato il colpo di grazia».
Secondo un portavoce dell’episcopato, i popoli indigeni meritano un riconoscimento della loro cultura e della loro autonomia, non essendo più possibile continuare a vivere in un paese diviso dal razzismo e dalla discriminazione. Da parte sua, il vescovo Samuel Ruiz continua il suo impegno con i gruppi promotori della pace. Il parroco di Ocosingo ha definito «grave e pericolosa» la risoluzione della Corte, giacché rischia di «spingere alla disperazione» gli zapatisti: «È stata riaffermata l’ingiustizia, si è confermata l’esclusione dei popoli indigeni», ha dichiarato, sottolineando come la Corte abbia in sostanza ignorato la problematica indigena che va ben aldilà del conflitto in Chiapas.
In un secondo momento, è sembrato che all’interno dell’episcopato guadagnasse terreno la linea di sostegno alle dichiarazioni del papa in Messico. La Commissione Pastorale Sociale ha proposto un dialogo nazionale sulla situazione giuridica degli indigeni e sulle loro condizioni economiche e sociali, senza discriminazione alcuna. E al Congresso Pastorale Maya quattro vescovi hanno chiesto il riconoscimento dell’autonomia delle etnie.
Una “infamia” all’insegna della “cecità colonialista”Anche diverse personalità messicane hanno contestato la decisione della Corte. Per la scrittrice Elena Poniatowska si tratta di una «vera infamia».
L’attivista sociale Rosario Ibarra de Piedra ha accusato la Corte di essere «asservita all’esecutivo».
Per l’ex rettore della Università Nazionale Autonoma del México (UNAM) Pablo González Casanova, la Corte non ha avuto «la sensibilità» di emettere una sentenza che contribuisse alla soluzione, dimostrando così una «cecità di stampo colonialista».
Secondo il filosofo Sánchez Vázquez, la conseguenza immediata della sentenza sarebbe quella di favorire il Piano Puebla-Panamá, avviando una «redistribuzione del territorio nazionale».
Per lo scrittore Carlos Montemayor, la Corte ha optato per «evitare di scontrarsi con l’ideologia razzista predominante fra i legislatori, nonché con la cecità e l’indifferenza dell’Esecutivo».
Secondo Luis Villoro, la sentenza della Corte ha dimostrato tanto «l’incapacità dei tre poteri di risolvere un problema cruciale della nazione», quanto si sia in presenza di «una democrazia escludente» ed uno Stato «cieco alle differenze e ad una pluralità che non sia quella dei partiti politici».
Altri intellettuali hanno messo in risalto come la Corte abbia perso l’opportunità di dimostrare indipendenza rispetto agli altri poteri dello Stato, manifestando al contempo il ritardo della società politica rispetto a quella civile.
In un documento pubblico, esponenti di organizzazioni civiche, personalità intellettuali e dell’arte hanno criticato il governo di non stare dalla parte del popolo messicano, come è stato per 71 anni sotto la “dittatura” del PRI, ma degli interessi del grande capitale nazionale e internazionale, nonché del governo degli Stati Uniti.
Umiliati, frustrati, traditiLe prime reazioni delle organizzazioni indigene sono state all’insegna del “ci hanno umiliato, offeso, ferito, deluso, tradito”. È un dato di fatto che le speranze riposte nella giustizia siano andate frustrate. Quanti hanno creduto nella via legale si sono sentiti defraudati. È chiaro, ormai, che la Corte ha accolto i ricorsi solo per formalità legale, senza alcuna intenzione di prestare davvero ascolto ai motivi della protesta, tanto meno di fare giustizia.
In questo quadro, grande preoccupazione è stata espressa per la chiusura, di fatto, degli spazi legali, se non della via pacifica, tanto che alcuni gruppi si sono spinti ad affermare che la sentenza equivale ad un invito alla violenza generalizzata, che darebbe così ragione alla via scelta dall’EZLN nel 1994. Essendo stati esclusi legalmente e politicamente, molti popoli indigeni si sono chiesti quale strada resti loro, non essendo più disposti a sopportare il colonialismo interno, né l’indegna situazione cui sono condannati. Tuttavia, sebbene lo scenario prevedibile fosse quello di una risposta violenta, l’opzione del movimento indigeno è stata la resistenza non violenta.
Emarginati e discriminati giuridicamenteUna via d’uscita immediata è quella giuridica internazionale. Molte organizzazioni indigene hanno annunciato battaglia contro questa sentenza ricorrendo alla Corte Interamericana dei Diritti Umani, all’ONU e all’OIT, dal momento che la riforma indigena vìola trattati internazionali vigenti e diritti indigeni.
Un’altra alternativa è quella di esercitare pressioni per una soluzione legislativa: cioè, che spinga il Congresso a legiferare nel senso degli Accordi di San Andrés.
Una terza, possibile via d’uscita è stata indicata dallo scrittore esperto in tematiche indigene Miguel León Portilla, che ha così sintetizzato lo stato della questione: spossessati, emarginati, discriminati e stranieri nella propria terra, i popoli indigeni sono sopravvissuti fra mille pene per cinque secoli; la rivolta guidata dall’EZLN ha obbligato lo Stato messicano a cercare il dialogo; un punto chiave negli Accordi di San Andrés è stato il riconoscimento dei villaggi indigeni come entità di diritto pubblico con autonomia nei rispettivi territori, delle cui risorse devono essere i primi beneficiari; altrettanto riconosciuto è il diritto ad essere rappresentati negli organi legislativi, nonché a preservare le diverse lingue e le differenze culturali; ciononostante, il parlamento ha svilito gli Accordi di San Andrés; ed ora, con la sentenza della Corte, i popoli indigeni si ritrovano di nuovo emarginati e discriminati sul piano giuridico.
Varie sono, dunque, le strade: la prima, per nulla disprezzabile, è il rispetto della Convenzione 169 dell’OIT, che deve essere tramutata in legge in México ai sensi degli accordi internazionali e che risponde alle principali rivendicazioni espresse negli Accordi di San Andrés. Pertanto, se il Presidente Fox esigesse di dare compimento a quanto stabilito dalla Convenzione 169 dell’OIT si farebbe un passo importante per il riconoscimento dei diritti indigeni e per la pace.
La risposta di molti gruppi indigeni è stata la mobilitazione di protesta. Il 9 settembre, esponenti del Congresso Nazionale Indigeno, dell’Associazione Nazionale degli Avvocati Democratici, dell’Unione dei Giuristi del México, dell’Alleanza Civica e di altri organismi di difesa dei diritti umani si sono radunati davanti la sede della Corte Suprema di Giustizia per ripudiare la decisione dei magistrati. In tale occasione, un dirigente del popolo Mixteco ha così sintetizzato la situazione: «Gli indigeni messicani sono un popolo senza Stato». Il 10 settembre, centinaia di indigeni simpatizzanti dell’EZLN hanno sfilato per le vie di San Cristóbal de las Casas, gridando di aver inteso il messaggio della Corte: “In Messico non serve il dialogo, né il negoziato per risolvere l’emarginazione”.
La reazione indigenaL’ultima presa di posizione pubblica dell’EZLN sulla legge indigena risaliva a fine aprile 2001. Quindi, nell’ottobre 2001 l’EZLN era tornato a farsi vivo con un comunicato in occasione dell’assassinio di Digna Ochoa, coraggiosa lottatrice per i diritti umani. Da allora, un silenzio che esprime un rumoroso ripudio della mancanza di rispetto degli accordi firmati.
Secondo fonti zapatiste, almeno 62 comunità della zona sotto la loro influenza hanno criticato la sentenza della Corte come una dimostrazione del volto razzista dello Stato e chiesto alle altre comunità di moltiplicare i municipi autonomi nella zona del conflitto. E, dopo la sentenza, gli zapatisti hanno rinforzato i posti di controllo nella loro zona di influenza, per vanificare i tentativi del governo di dividere le comunità.
D’altro canto, gruppi indigeni di Morelos, Michoacán e Oaxaca hanno annunciato blocchi stradali e occupazioni di edifici pubblici in segno di protesta per la sentenza dei magistrati. Anche gli indigeni di Querétaro, denunciando il governatore del loro Stato come un ostacolo per il progresso dei gruppi etnici, hanno aderito alle manifestazioni contro la decisione della Corte. Membri del Congresso Nazionale Indigeno hanno annunciato ricorsi per frenare l’applicazione della nuova legge nei loro territori.
I gruppi indigeni messicani non sono uniti in un unico movimento organico. Alcuni, più radicali, potrebbero optare per vie non pacifiche. Tuttavia, la maggioranza si è espressa per la via non violenta, per continuare la mobilitazione e per il riconoscimento dei propri diritti e della propria autonomia.
In un incontro nazionale dei popoli indigeni realizzato in Guerrero, verso metà settembre, alla presenza di delegati provenienti dal Distretto Federale e dagli Stati di Oaxaca, México, Sinaloa, Campeche, Yucatán, Sonora, Michoacán, Quintana Roo, Chihuahua, Morelos, Guerrero e Chiapas, è emersa la necessità di riunire il movimento indigeno, oggi disperso, intorno ad un progetto di nazione multiculturale, intenzione espressa nella cosiddetta Dichiarazione di Chilpancingo. Tale documento è stato inviato al Congresso Nazionale Indigeno, che si trovava riunito in un Foro sulla Medicina Tradizionale.
A partire dalla forza  comunitaria indiaDopo la sentenza della Corte, contraria ai popoli indigeni, sono evidenti tre conseguenze. Lo Stato ha agito contro gli interessi dei popoli indigeni. La nuova legislazione non ha portato la pace. I popoli indigeni continueranno a lottare per i propri diritti collettivi e per l’autonomia municipale. Nelle parole di un dirigente indigeno: «Il Presidente Vicente Fox ha ingannato i popoli indigeni, il Congresso dell’Unione si è preso gioco della nostra iniziativa e la Corte Suprema ha messo fine alla nostra ultima speranza».
La decisione della Corte apre, dunque, un’altra tappa nella lotta a favore dei popoli indigeni. Dal momento che i tre poteri dello Stato non lasciano loro spazi nel quadro dell’ordinamento giuridico nazionale, resta da verificare la loro capacità di promuovere nei fatti una autonomia basata sui propri, antichi sistemi normativi e sulla loro forza comunitaria, per resistere allo Stato e alle sue istituzioni repressive.

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