«Abbiamo fatto germinare le nostre idee per imparare a sopravvivere in mezzo a tanta fame, per difenderci da tanto scandalo e dagli attacchi, per organizzarci in mezzo a tanta confusione, per rincuorarci nonostante la profonda tristezza.
E per sognare oltre tanta disperazione.»


Da un calendario inca degli inizi della Conquista dell'America.
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GUATEMALA / La questione religiosa ed il mito dell'esercito

Il 20 Luglio 1954, di fronte a coloro che avevano deposto Jacobo Arbenz e posto fine alla Rivoluzione del ’44, l’arcivescovo Rosell affermò con orgoglio: «La Chiesa non ha bisogno di una nuova egemonia, perché ce l’ha già e non l’ha mai persa nella nostra patria, in cui tutti si fidano della sua parola, credono nella sua dottrina e collaborano alla sua opera». All’inizio del terzo millennio, nessun esponente della Chiesa Cattolica si arrischierebbe a pronunciare con la stessa sicurezza tali parole, nemmeno dopo la visita del Papa in occasione della canonizzazione dell’hermano Pedro, avvenimento che ha rappresentato una straordinaria affermazione della cattolicità in Guatemala.

Di Juan Hernández Pico, corrispondente dal Guatemala. Traduzione di Sabrina Bussani. Redazione di Marco Cantarelli.

Non sappiamo con esattezza quale sia la percentuale di protestanti tra la popolazione guatemalteca. Anni fa, si parlava di un 30% circa e, sebbene non sia ancora stato raggiunto il 50%, meta che il movimento evangelico guatemalteco si era proposta per l’anno 2000, sono ormai in molti a ritenere che i protestanti costituiscano il 40% della popolazione. Tuttavia, queste cifre molto probabilmente non riflettono la realtà. In Guatemala, le statistiche religiose valgono quanto dei soldatini in un campo di battaglia. Basandosi su dati forniti dalla Crociata Mondiale di Evangelizzazione, David Stoll ha calcolato che nel 1985 la percentuale di protestanti in Guatemala era del 18,9%, con un tasso di crescita annuo del 6,7% tra il 1960 ed il 1985. È probabile che oggi, all’inizio del terzo millennio, il protestantesimo abbia superato il 25% della popolazione guatemalteca, come media nazionale, mentre in alcune parti del Paese, come nel dipartimento di Escuintla nella costa meridionale o nell’altopiano occidentale, la percentuale superi il 30% e raggiunga addirittura il 60% in alcuni municipi di Santa María Chiquimula.
Al contrario di quanto è successo nel 1879, quando la Costituzione liberale dichiarò la libertà di culto e, tre anni dopo, il presidente Barrios facilitò l’entrata in Guatemala dei presbiteriani, allo scopo di stimolare la civilizzazione del progresso e ridurre la capacità della gerarchia cattolica di contrastare le sue riforme politiche, le confessioni protestanti storiche, quali le chiese presbiteriana, metodista, battista, luterana, episcopale, etc., sono oggi ridotte ai minimi storici rispetto alle chiese pentecostali, soprattutto tra la gente povera, e neopentecostali, tra la classe medio-alta.
La modernizzazione voluta da Barrios e dai suoi amici latifondisti del caffè, di cui la politica anticlericale e di porte aperte al protestantesimo fu solo un aspetto, comportò costi terribili per i popoli indigeni, che furono espropriati della maggior parte delle loro terre tradizionali e comunitarie, proiettati nel mercato senza alcuna protezione, né dello Stato, né delle congregazioni religiose che pure erano state espulse.
Verso la fine del XX secolo, la politica dei militari di sostegno al capitalismo retrogrado, anche a costo di strappare e massacrare le popolazioni che avrebbero potuto appoggiare il movimento rivoluzionario e, soprattutto, le popolazioni indigene, ha creato una cultura del terrore nella quale hanno potuto proliferare i movimenti religiosi pentecostali, soprattutto evangelici, ma anche cattolici.
Alla fine del XIX secolo, furono espulsi dal Guatemala suore – ad eccezione delle Sorelle della Carità –, religiosi e persino arcivescovi. Verso la fine del XX secolo, anche se vi furono nuove espulsioni, i metodi si fecero ancor più drastici arrivando ad assassinare sacerdoti, religiosi e laici dei movimenti di Azione Cattolica. Anche alcuni evangelici, impegnati nella lotta per la giustizia, furono uccisi.
All’inizio degli anni ’40, la percentuale di popolazione evangelica guatemalteca costituiva appena il 2%. Mezzo secolo dopo, in particolar modo dopo il terremoto del 1976, si può osservare la sua crescita straordinaria, tra le percentuali più alte mai raggiunte in un paese latinoamericano: 25-30%.
Nel mondo cattolico abbondano i tentativi di spiegare il fenomeno: si tratterebbe di una politica dello Stato, indotta dall’esercito, che considererebbe pericolosa la Chiesa Cattolica quando opta per i più poveri e denuncia le condizioni di ingiustizia sociale e repressione. Tale politica sarebbe stata appoggiata, in forma pubblica e privata, dagli Stati Uniti: dalle “lamine (di zinco) per la conversione” distribuite dopo il terremoto, ai veicoli, al piccolo negozio, o ancora al salario per una stagione di lavoro nelle piantagioni di prodotti per l’esportazione sulla costa, fino alle cappelle costruite in tempo di guerra “in nome del Signor Comandante”, così come ai tempi della Conquista  spagnola si erigevano “in nome del nostro Signore il Re”. Nel fondo di tale visione, emerge l’idea che l’unica cosa che unisce i gruppi fondamentalisti e pentecostali, a volte a torto chiamati sette, è l’odio verso la Chiesa Cattolica.
Esercito “Padre della Madre Patria”In un’intervista del 1990 rilasciata a Jennifer Schirmer, esperta ricercatrice di Harvard, Francisco Beltranena Falla, studioso del tema “esercito”, sosteneva che la penetrazione evangelica rispondeva ad una «strategia per fermare» quelli che erano considerati «uno dei principali nemici del sistema», cioè i preti rivoluzionari e i catechisti, bollati come loro «agenti».
Il “cristiano rinato”, generale Ríos Montt svolse un ruolo chiave in questo senso, tanto che gli ufficiali intervistati da Schirmer parlano del colpo di Stato del 1983, che rovesciò Ríos Montt per insediare Mejía Víctores, come un ricambio al governo maturato tutto all’interno della Chiesa del Verbo, in riferimento a quella denominazione pentecostale.
In realtà, l’esercito non solo ha usato l’evangelismo per i suoi fini strategici, ma ha presentato ricorso anche ad un linguaggio religioso, in senso lato, e alla cosmovisione maya, in particolare. L’autrice ci racconta che all’entrata del “villaggio modello” di Tzalbal, nel Quiché, vi fosse una grande manifesto che presentava lo stesso come una «comunità rinata», tassello del più ampio disegno di «un uomo nuovo, un paese nuovo, un Guatemala nuovo». Si trattava di un discorso secolare, formulato in termini religiosi, presi sia dal Nuovo Testamento sia dal linguaggio dei movimenti rivoluzionari, dal sapore religioso – ad esempio, “l’uomo nuovo” del Che Guevara –. In molte occasioni, i militari intervistati da Schirmer parlavano dell’esercito come un padre ed una madre allo stesso tempo: padre della democrazia, e contemporaneamente, «l’unica istituzione che ha spinto per far nascere questo bambino». L’esercito, insomma, come creatore e madre della nuova patria: «padre guardiano e protettore, Padre della Madre Patria».
In un’intervista con l’autrice, il generale Gramajo, co-autore dei piani offensivi militari degli anni ’80, nonché eminenza grigia della strategia di Stabilità Nazionale ed ex ministro della Difesa durante la presidenza di Vinicio Cerezo (1986-91), ha riconosciuto implicitamente la necessità dell’esercito di purificarsi dalle gravi violazioni dei diritti umani commesse. Nell’ammetterlo, è ricorso ad una formula dallo stesso ritenuta propria dell’esorcismo maya: «Come fanno gli stregoni a curare uno che sta male? Passano un uovo per tutto il corpo della persona malata, mentre recitano una preghiera. Alla fine, rompono l’uovo, che è diventato marcio, e così il male se n’è andato. Questo è l’uovo dell’esercito», dichiarò a Schirmer, mostrandole il libro con la Tesi sulla Stabilità Nazionale. Per poi aggiungere: «Stiamo confessando il nostro male, siamo soddisfatti e non abbiamo più questi problemi (dei diritti umani, nda), li abbiamo estirpati da noi. Ora, la gente fuori deve vedere che questo (la Tesi, nda) è l’uovo marcio».
L’esempio scelto per dimostrare la catarsi dell’esercito, forse, non è molto azzeccato, poiché la stessa Tesi di Stabilità Nazionale dava fin dall’inizio l’impressione di essere “marcia”.
E non poteva essere diversamente visto che il “male” che voleva esorcizzare con la presunta stregoneria maya era proprio quello scatenato dall’esercito contro la stessa popolazione maya.
Comunque sia, lo sforzo sostenuto dall’esercito per appropriarsi della simbologia religiosa è stato enorme. Ciò ci dà un’idea della sua potenza e, allo stesso tempo, rende indimenticabile il tentativo militare di piegare con il sangue ed il fuoco la forza della religione ed il sentire religioso, uccidendo sacerdoti e catechisti, bruciando le Bibbie, insediando caserme, celle di tortura e cimiteri clandestini nei conventi dai quali la stessa persecuzione e repressione militari aveva espulso i religiosi. Sia il Rapporto Rockefeller del 1968 che il Documento di Santa Fe del 1989 avevano già resso pubblicamente l’ostilità dei repubblicani statunitensi nei confronti della Chiesa Cattolica, maturata a seguito della Conferenza dei Vescovi di Medellín e stimolata dalla Teologia della Liberazione.
L’auge dell’evangelismo come movimento socialeIl pesante intervento dell’esercito con la sua strategia di promozione del movimento evangelico, tuttavia, da solo non riesce a spiegare l’impressionante crescita di quest’ultimo, non tanto in termini di chiese e sette, ma nel senso che tali chiese e movimenti religiosi costituiscono allo stesso tempo una specie di movimento sociale. Questi movimenti religiosi di carattere sociale sorgono in un contesto sociale, come quello guatemalteco, che negli ultimi 50 anni ha vissuto rapidi e vari cambiamenti sulla strada verso la modernizzazione; mutamenti incomparabilmente superiori a quelli vissuti nei quattro secoli e mezzi precedenti.
Tale crescita dell’evangelismo è stata possibile, secondo alcuni, per il carattere assistenziale (psicologico, sociale, economico) delle chiese evangeliche. Secondo altri, sarebbe invece conseguenza di una ricerca di identità sicura e confortante in un’epoca di così rapidi e, a volte, travolgenti cambiamenti, che mettono in crisi le identità tradizionali. In altre parole, fino a quando la “comunità tradizionale” è rimasta più o meno intatta, il nuovo tipo di identità mancava di capacità di attrazione. Ma quando quel “centro di convivenza” ha cominciato a perdere colpi sotto gli effetti erosivi dello “sviluppo”, delle migrazioni e della guerra, con esso molte credenze, pratiche ed istituzioni che davano forma a quell’identità sono venute meno. Almeno in parte, il tentativo di ricreare in una certa misura un ordine, un’identità ed un senso di appartenenza, ha motivato la conversione di molte persone al protestantesimo.
Paradisi locali in un mondo globaleIn una ricerca condotta a livello mondiale, il sociologo Manuel Castells mostra ciò che Schirmer ha verificato nel caso del Guatemala. Castells ha studiato i fondamentalismi – quello islamico e quello cristiano (evangelico) –, definiti «paradisi locali» in mezzo ad una società globalizzata dalle reti dell’era dell’informazione. A partire dai fallimenti del capitalismo, del socialismo e del nazionalismo, nel mondo islamico si profila un «progetto fondamentalista islamico», come identità di resistenza ai modelli menzionati. Non si tratta di un «ritorno alla tradizione», ma di «un’elaborazione del materiale tradizionale allo scopo di formare un nuovo mondo divino e comunitario, in cui le masse espropriate e gli intellettuali delusi possano ricostruire il senso di un’alternativa globale all’attuale ordine globale che esclude».
Le grandi minacce contro cui reagisce il fondamentalismo cristiano, che Castells studia negli Stati Uniti, sono date dalla globalizzazione – cioè, il controllo del Paese da parte degli organi di governo mondiale; basti ricordare la battaglia di Seattle contro l’Organizzazione Mondiale del Commercio a fine 1999 –, e la distruzione del patriarcato nella famiglia.
Anche in Guatemala la paura della globalizzazione si traduce in timori per la minaccia di un’invasione della propria abitazione per reclutare giovani soldati, tanto da parte di movimenti rivoluzionari che di organi dello Stato, o per vicende di politica nazionale ma legate ad organizzazioni o ideologie mondiali, dalla CIA al movimento socialista o all’FMI...
La crisi del patriarcato è evidente anche in Guatemala, in cui tante famiglie sono divise, tra l’altro, dall’alcolismo, il cui superamento permetterebbe il ritorno ad una famiglia unita e patriarcale, in cui l’uomo recuperi il rispetto perduto.
Secondo Castells, c’è qualcosa che va oltre la difesa dei privilegi maschili e che è condiviso da uomini, donne e bambini. Una paura profonda per l’ignoto, che diventa più temibile quando tocca la base quotidiana della propria vita. Ciò si ricollega all’alto tasso di instabilità familiare, a causa di divorzi o abbandoni del tetto coniugale da parte degli uomini; al movimento femminista, che erode il ruolo maschile di marito e padre; all’accettazione pubblica dell’omosessualità maschile e femminile.
In questo quadro, il pentecostalesimo cattolico, il Movimento di Rinnovamento Carismatico, viene collocato da alcuni sociologi nel contesto di una “religione del perfezionamento”, centrata su aspetti interiori ma rivolta al successo individuale, contrapposta, come tipo ideal-weberiano, ad una “religione della redenzione”, centrata su aspetti esteriori ma votata alla speranza messianica. In breve, il Rinnovamento Carismatico sembra essere la risposta cattolica alla corrente della Nuova Era nella spiritualità globale attuale. Si offre una religione dell’interiorità, contrapposta alla religione messianica. Nel contesto cattolico, il Rinnovamento Carismatico costituirebbe un contrappunto dialettico alle Comunità di base o all’Azione Cattolica, ma in nessun modo andrebbe inteso come un’eresia.
L’auge del movimento pentecostale: l’unico permessoTra il 1954 ed il 1996, i movimenti pentecostali o neopentecostali sono stati gli unici movimenti sociali  permessi in Guatemala, in un periodo in cui i movimenti sindacali, contadini, indigeni, socialdemocratici, rivoluzionari e cattolici di base, tutti promotori di un profondo cambiamento sociale, furono progressivamente e sistematicamente perseguitati, decimati, spazzati via e massacrati.
La storica Matilde González ha raccolto la memoria storica di quegli anni dalla bocca degli anziani dirigenti di base sopravvissuti alla guerra in San Bartolomé Jocotenango: l’esercito ed i capi delle Pattuglie Civili «uccidevano chi possedesse una Bibbia e le persone buone dell’Azione Cattolica». Questa realtà, brutalmente intransigente, convinse molti laici e anche alcuni sacerdoti e religiose ad abbandonare quel che ad essi sembrava «il vicolo cieco della vita pubblica» per unirsi a movimenti guerriglieri clandestini. Ma anche in quel contesto, «il terrore divenne uno dei fattori endogeni che contribuirono alla crescita del pentecostalesimo».
Non è lontana dalla realtà anche quest’altra opinione: «È più che probabile che quelle società religiose che non avessero incoraggiato un’ideologia di sottomissione al potere stabilito, non sarebbero riuscite a prosperare in un contesto politico di costante sospetto verso qualsiasi forma di organizzazione popolare».
Nei movimenti pentecostali diffusi tra i poveri, la sottomissione comporta, tuttora, anche un disinteresse a partecipare alla vita della società, limitandosi al proprio “paradiso locale”. Invece, nei movimenti neopentecostali quali Verbo, Elim o Shaddai, ai quali partecipano esponenti della classe medio alta, come  l’ex presidente protagonista di autogolpe Jorge Serrano Elías o diversi ufficiali dell’esercito come il generale Ríos Montt, l’enfasi sul “paradiso locale” non è sufficiente e l’intento è quello di migliorare la società guatemalteca, anche quando i propositi dei gruppi che giravano attorno a Ríos Montt o Serrano Elías siano risultati tragici, grotteschi o corrotti.
La stupefacente forza della religioneÈ evidente come, oggi in Guatemala, la Chiesa Cattolica sia costretta a convivere con un pluralismo religioso ormai fortemente radicato tra i cristiani. Tale pluralismo che rompe l’egemonia del cattolicesimo non è frutto soltanto della crescita del movimento evangelico, ma anche della religione maya. Probabilmente, la Chiesa Cattolica non ha mai avuto un reale monopolio religioso in Guatemala, dal momento che la religione maya non è mai stata completamente sradicata né cristianizzata. Partecipando, ad esempio, alla festa patronale di Santa María Chiquimula, uno dei villaggi maya dell’altopiano guatemalteco, che si svolge in gennaio, mi ricordo nitidamente la sensazione di forza religiosa che emanava da queste etnie o nazioni maya.
È evidente come la religiosità si mescoli alle opportunità che la festa offre per il commercio e per le diverse bande musicali contrattate dalla Associazione Commercianti. Tuttavia, è stupefacente quanto tempo venga dedicato dalla gente, che volontariamente lavora in ore serali e a volte fino al mattino, per adornare il tempio, l’atrio e le immagini sacre.
La festa è in onore del Cristo Nero di Esquipulas, dietro al quale si nasconde chiaramente una divinità maya, e lo scenario offerto dalla gente che in segno di venerazione avanza in ginocchio verso il Cristo per baciarlo, non ha nulla da invidiare alle feste che si celebrano al santuario di Esquipulas, nella parte orientale del Guatemala, dove arriva in pellegrinaggio gente da tutto il Centroamerica e dal sud del México. Anche la forza simbolica del giardino di candele, che bruciando rappresentano le vite offerte a Dio, suscita un impatto molto forte. Tutto ciò è, in realtà, un ricordo vivissimo di sacrifici ancestrali.
Quando, durante l’Eucarestia, i fedeli chiedono di pregare «perché gli affari vadano bene», non solo per conservare la salute o ricordare i defunti, si sente che esiste ancora un legame quasi intatto tra la secolare quotidianità di una sartoria o del piccolo commercio di quella comunità quiché, e la vita spirituale, e si comprende come la forza della tecnologia e della comunicazione globale, ormai così presente, non sia ancora riuscita a minare l’accesso alla trascendenza.
L’auge dello spirito religioso mayaLa forza della religione è ancora maggiore quando sussiste una relazione serena e simbiotica tra la religione cattolica e quella maya: per molto tempo, la gente e l’antropologia l’hanno battezzata la religione della Costumbre (cioè, del costume, della tradizione, ma anche dell’abitudine, ndr) per sottolineare il profondo sincretismo che la caratterizza. Davanti alla forza dell’autorità “tradizionale” – dei “principali” della comunità – i pregiudizi degli evangelici sulle immagini o sui santi passano in secondo piano o annullano addirittura la loro peculiare aggressività.
La religione acquisisce ulteriore forza laddove un lavoro di inculturazione ha permesso alla gente di avvicinarsi alla liturgia cattolica con una comprensione nuova, nella propria lingua e ricreando le proprie simbologie. Un esempio è dato dall’atto penitenziale fatto da laici e laiche davanti all’altare che, ad ogni petizione di riconciliazione, accendono le candele orientate verso i quattro punti cardinali, girando quelle candele che rappresentano il Cuore del Cielo ed il Cuore della Terra.
Uno dei lavori antropologici più influenti in Guatemala si è focalizzato sulla conversione religiosa, dalla religione maya all’Azione Cattolica: un’esperienza significativa anche se molto dolorosa, cristallizzatasi inoltre come ribellione contro la comunità tradizionale, che impediva l’emergere della persona nella società attraverso il commercio o la politica.
I processi di inculturazione che oggi recuperano il bagaglio simbolico maya mostrano, pur fra le loro certezze e i loro valori, una certa ambiguità verso gli iniziali processi di conversione dalla religione maya: «Non ci avevano forse detto che la Costumbre era il demonio? Come mai ora ci dicono che adesso bisogna tollerarla e riametterla nella Chiesa? Come mai ci dicono che i fagioli, l’incenso, le candele e il liquore possono avere un posto nella religione?».
Del resto, non è tutto oro ciò che luccica nella religione maya e la gente conserva tuttora memoria di invidie e liti risolte tramite malefici che creano divisione e paura, soprattutto nelle aree rurali o urbane marginali. Ovviamente, tutte queste contraddizioni ci sono anche in ambienti non maya, dove appaiono sotto forma di diversi tipi di spiritismo o di negromanzia.
La religione maya di fronte al movimento evangelicoQuanto è successo nel municipio di Almolonga, nei pressi di Quetzaltenango, consente di formulare l’ipotesi che la forza della religione maya non regga di fronte ad una conversione massiccia all’evangelismo. Le confraternite di Almolonga sembrano essersi dissolte in una popolazione che si è convertita al 90% alle chiese evangeliche. La ricchezza prodotta dalla coltivazione di ortaggi ad Almolonga, nella logica della crescita capitalistica, non va d’accordo con la permanenza di sistemi religiosi che professano l’egualitarismo economico, quale quello che sottende l’organizzazione delle confraternite maya tradizionali. Ancora una volta “lo spirito del capitalismo” ed il protestantesimo si appoggiano a vicenda, anche se poi ci sono “evangelici” che continuano a chiedere ai sacerdoti indigeni che preghino per loro (illuminante l’espressione usata dalla gente: “que les hagan costumbre”, ndr) o che vanno in un altro municipio, dove il prete non li conosce, per far celebrare una messa. Bisognerebbe verificare se queste ultime osservazioni sono corrette e quanta gente si comporta effettivamente in questo modo.
Sarebbe, inoltre, interessante studiare come si mantiene o se perda invece forza la religione tra gli emigranti maya negli Stati Uniti. Ad esempio, la religione sembra mantenere tutta la sua intensità tra la comunità garifuna, popolo di navigatori e, per questo, assai aperto a tutte le forme di influenza della civilizzazione secolare, con insediamenti lungo tutta la costa atlantica del Centroamerica, ma la cui comunità più grande risiede a New York.
Il mondo maya di fronte al cattolicesimoOvviamente, non è solo la religione cattolica inculturata con le tradizioni maya ad alimentare il pluralismo religioso in Guatemala. È soprattutto la riscoperta della stessa tradizione maya, rimasta invisibile per tanto tempo, come rinchiusa in una cripta semiclandestina, a moltiplicare il pluralismo.
Per la maggior parte dei funzionari della Chiesa Cattolica – o per usare un linguaggio religioso invece che sociologico: per la maggior parte dei suoi “ministri” – una cosa è accettare un lento processo di inculturazione del cattolicesimo con le tradizioni e le lingue maya, ben altra cosa è partecipare alle celebrazioni maya nelle montagne e nelle grotte, o negli atri dei templi nei giorni importanti del calendario maya. Ancora più difficile è un approccio alla comprensione dei Maximones, differenziandoli dalle ripudiate stregonerie. Nei fatti, comunque, sempre più persone, anche non maya, assecondano questo risorgimento della religione maya, partecipando a cerimonie di purificazione tramite il fuoco o ad altri tipi di riti.
La violenza all’origine del pluralismo religiosoQual’è la caratteristica del pluralismo religioso in Guatemala? I primi due impulsi verso il pluralismo religioso, l’introduzione del cattolicesimo con la Conquista del 1524 e del protestantesimo con la Riforma Liberale del 1882, sono stati caratterizzati dalla violenza. Sul piano militare, certo, non si può paragonare la Conquista del XVI secolo con la Riforma Liberale: la prima è stata molto più grave. Tuttavia, le leggi che soppressero l’usufrutto delle terre, che furono poi espropriate, e istituirono il lavoro forzato degli indigeni, sottomisero politicamente gli eredi dei maya ad una violenza economica e culturale simile a quella della Conquista spagnola.
L’espulsione di vescovi ed ordini religiosi, alcuni dei quali possedevano ancora latifondi, ebbe lo scopo di privare le comunità indigene della protezione della Chiesa Cattolica. Per lo stesso motivo, fu decretata l’apertura al protestantesimo.
Intorno al 1970, all’interno della Chiesa Cattolica iniziò a svilupparsi il movimento pastorale che prendeva slancio dai Documenti di Medellín e dalla Teologia della Liberazione. Il ritorno alle fonti cristiane operato dai Documenti di Medellín, che altro non erano che la traduzione latinoamericana del Concilio Vaticano II, cioè il seguire gli insegnamenti di Gesù Cristo e costruire il regno di Dio con giustizia, compassione e lealtà, minò alle fondamenta la religione devozionale e ritualistica, e più precisamente la religione costantiniana del potere, fondata sull’appoggio delle gerarchie sociali e politiche, la religione dello status quo.
Nonostante la svolta, però, non venne superata la tendenza della religione a scommettere sul potere, che allora si profilava rivoluzionario. In quel contesto, aumentò la presa di coscienza dei popoli indigeni e, al loro interno, nacque un movimento sociale contadino assai combattivo e militante, così come un moto di adesione alle organizzazioni rivoluzionarie politico-militari. L’esercito rispose a tutto ciò scatenando una politica di massacri e terra bruciata che emulò e, forse, superò in violenza e crudeltà i metodi usati 460 anni prima dalla Conquista.
L’idolatria del potere militare dello StatoIn fondo, dietro tutte le reazioni – alla resistenza quiché nel 1524, alla resistenza cattolica nel 1882, e al recupero cattolico delle fonti cristiane e alla coscientizzazione indigena negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso – c’è l’idolatria di un’organizzazione sociale che continua a perpetuare i monopoli della ricchezza e del potere. Gli idoli dell’impero spagnolo, del progresso attraverso l’economia capitalistica del caffè, della sicurezza data da uno Stato che protegge una delle strutture sociali più inique e razziste del mondo attuale in cui convivono un primo mondo numericamente ridottissimo e ricchissimo e un quarto mondo immenso e abbandonato a se stesso, sono tutte facce dello stesso idolo.
Gli idoli hanno sempre richiesto vittime sanguinanti. I poteri sostenuti da un qualche forma di idolatria hanno sempre reclamato tali vittime. Secondo Jennifer Schirmer, la differenza tra i militari che l’ex presidente Cerezo definiva «intransigenti» e quelli sempre dallo stesso considerati «meno intransigenti» – i cosiddetti “istituzionalisti” – non stava nel ricorso o meno alla violenza: «Non è il problema di uccidere che divide i militari, ma il dilemma che una volta deciso che è necessario uccidere, poi c’è bisogno di una pianificazione strategica e del controllo di chi uccide. Come dire: “Non stiamo rinunciando all’uso della forza ma per completare il lavoro non è necessario uccidere tutti”».
“Non sappiamo chi sarà il nostro prossimo nemico”Come fenomeno religioso, non è poi così importante l’instaurarsi di un pluralismo religioso, che può anche essere considerato il risultato di una maggiore tolleranza, certamente difficile da raggiungere oggi, e di un ambiente ecumenico centrato sulla compassione, la cui realizzazione richiederà sforzi molto creativi.
Nell’attuale pluralismo, qualsiasi religione che sia profondamente sensibile alle ingiustizie dell’ordine costituito – determinati settori del cattolicesimo e alcune correnti del protestantesimo e del pentecostalesimo di altre chiese, della religione maya, oppure di persone portatrici di una cosmovisione agnostica secolare – finirà per l’essere considerata dall’esercito “oppositrice dello Stato” e, quindi, “nemica”. E questo fenomeno è drammaticamente importante.
Il potere idolatra dell’esercito interpreta ogni dissenso con il paradigma del nemico. Schirmer cita un colonnello dei servizi segreti che dopo la firma di pace rifletteva ad alta voce in questo modo: «Non sappiamo chi possa essere il nostro prossimo nemico». Perché per l’esercito, nella sua attuale concezione, ci dovrà essere sempre un nemico, nonostante si viva in tempi di pace. Nella lista dei potenziali nemici in un futuro immediato secondo quel colonnello figuravano «i contadini»; mentre il generale – ora in pensione – Sergio Camargo parlava del narcotraffico, perchè «a differenza del comunismo, è lucrativo»; a sua volta, un documento di analisi dello Stato Maggiore della Difesa Nazionale includeva tra i nemici, nel 1996, i «rimpatriati» e «la nascita di un movimento pan-maya».
Agli inizi degli anni ’90, il generale Gramajo parlava della «possibilità di una lotta religiosa in Guatemala», salvo scartare tale ipotesi per il solo fatto che non è probabile che ci sia qualcuno che mobiliti il «fondamentalismo religioso contro gli evangelici». Per Gramajo, evidentemente, i fondamentalisti belligeranti sarebbero i cattolici.
Grazie alla vicinanza ad un México profondamente religioso e al legame della regione centroamericana con gli Stati Uniti, uno dei paesi chiave della globalizzazione meno toccati dalla secolarità escludente della religione, la religiosità guatemalteca è, forse, meno influenzata dalle corrente secolari della globalizzazione. Tuttavia, la dottrina della sicurezza dello Stato, nata in seno alla politica imperiale degli Stati Uniti ed oggi riproposta in modo aggressivo con la guerra al terrorismo, ha da parecchio tempo contagiato, come un’idolatria endemica, l’esercito del Guatemala e, soprattutto, i suoi servizi segreti, strettamente legati alla CIA.
È stata la convinzione dell’esercito che l’antropologa Myrna Mack fosse responsabile di aver alzato il velo sull’esistenza delle Comunità di Popolazione in Resistenza e sulla costante ostilità militare nei loro confronti, a spingere il primo a cospirare per assassinarla. Per monsignor Juan Gerardi, l’aver iniziato un lavoro di smascheramento e di smitizzazione dell’esercito “Padre della Madre Patria”, attraverso tutto il lavoro di Recupero della Memoria Storica (REMHI), è equivalso a firmare la propria condanna a morte.
Questo è il vero problema religioso del Guatemala: la concezione mitica che l’esercito ha di se stesso come “Padre e Madre della Patria”, il trattamento da eretici ideologici riservato a chi dissente da tale dottrina, la decisione dei suoi alti comandi, che evidentemente si ritengono degli dei, di non rendere mai conto dei propri atti. Sostiene Schirmer: «L’esercito è l’unica istituzione che rifiuta di accettare le proprie responsabilità storiche nel genocidio». Difatti, «non ci faremo spellare vivi come i generali argentini», ha dichiarato alla stessa il generale Gramajo, ormai in pensione, a proposito del mantenimento dell’impunità dei militari anche sotto le presidenze civili. Naturalmente, per portare a termine questo piano, come ogni centro di potere religiosamente e miticamente trasfigurato in una specie di autorità pontificale che media tra terra e cielo, l’esercito deve basarsi «sul disprezzo ufficiale (ancorché inconfessato) per i diritti fondamentali dei guatemaltechi, soprattutto per il diritto alla vita».
Il problema vero è che avendo un “Padre e Madre” miticamente semidivinizzati, che concepiscono la politica come «un’altra forma di fare la guerra», così come affermato dal generale Gramajo, anche i “suoi figli”, cioè la società guatemalteca, imparano a risolvere i propri problemi attraverso la violenza. Il dio che questi figli devono imitare e da cui saranno protetti, è un dio violento, che invece di moltiplicare amici e amiche, moltiplica nemici e nemiche. Da un dio come questo, che vigila con le minacce, il terrore e le armi su una società fondata sull’esclusione e dominata da élites arricchitesi, non ci si può aspettare altro che un torrente di violenza quasi irrefrenabile. Ed è ciò che accade oggi in Guatemala.
La ripresa del compimento degli Accordi di Pace del 1996, la diminuzione del bilancio militare e l’applicazione del piano di risparmio a causa delle (maggiori) spese per educazione e salute, l’eliminazione dello Stato Maggiore Presidenziale, la distinzione tra sicurezza interna e sicurezza esterna, lo smantellamento di molte basi militari oggi non più decisive per la sicurezza delle frontiere, la netta separazione tra servizi segreti militari e civili e, in fin dei conti, il consolidamento del potere civile; tutto ciò ha un’enorme importanza e senza di ciò il Guatemala continuerà in ginocchio davanti al potere militare dello Stato.
Di qui anche l’importanza, evidente nei casi giudiziari relativi agli omicidi di Myrna Mack e monsignor Gerardi, che si comincino a minare le basi dell’impunità degli alti comandi dell’esercito. A partire da ciò, tanti alti militari potranno essere portati in tribunale e dovranno assumersi le proprie responsabilità per i massacri, le sparizioni, le torture, per tutti quei crimini contro l’umanità che non cadono in prescrizione.
Nel caso di Gerardi, tuttavia, bisogna stare attenti di non fare il gioco dei suoi assassini, i quali, uccidendolo, hanno voluto distogliere l’attenzione dal suo lavoro, il REMHI, per centrarla invece sul processo per il suo assassinio. Tre mesi fa, la sentenza di primo grado che condannava a trent’anni di carcere i tre militari, tra cui un colonnello in pensione, ex capo dello spionaggio militare, accusati di complicità, e a vent’anni il sacerdote Mario Orantes, per complicità, è rimasta sospesa presso la Corte d’Appello in attesa di un nuovo dibattimento orale. Tuttavia, la Sezione Penale della Corte Suprema di Giustizia ha accolto in via provvisoria un’istanza presentata dall’accusa, riaprendo in tal modo l’intero caso giuridico in attesa di un pronunciamento definitivo sul ricorso.
Nell’attesa che si faccia giustizia in questo caso emblematico, come in tanti altri casi, la preservazione della memoria storica sarà il cammino per costruire una democrazia non repressiva, che permetta una vera transizione verso una democrazia basata su un’autentica riconciliazione, preoccupata non solo di questioni elettorali ma anche della partecipazione pubblica e del benessere economico, sociale e culturale della popolazione.
Soltanto allora, quando l’esercito finirà di considerarsi ed essere considerato il mitico “Padre e Madre della Patria”, si potrà risolvere davvero il nodo del problema religioso in Guatemala.

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