COSTA RICA / Fra spinte globalizzanti e crisi interna, ecco il nuovo, fragile governo
Di Amaru Barahona, corrispondente dal Costa Rica. Traduzione di Luigi Scalambrino. Redazione di Marco Cantarelli.
Nei primi anni ‘90, il Costa Rica mostrava di avere un tratto comune con il resto dei paesi latinoamericani: la scarsissima credibilità della sua classe politica e del suo sistema politico agli occhi della società. Nel 1996, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP, nell’acronimo inglese, ndr) condusse un’inchiesta in tutti i paesi centroamericani, con l’obiettivo, tra gli altri, di misurare la percezione e le aspettative dei centroamericani rispetto alle loro istituzioni. I risultati della ricerca testimoniavano un altro grado di sfiducia e scetticismo dei costaricensi nei confronti delle loro istituzioni, persino più alto e radicale di quello del resto dei centroamericani.
Qualche esempio: la politica generava sentimenti negativi – sfiducia, disgusto, indifferenza, irritazione o noia – nel 79% dei costaricensi, la stessa percentuale registrata fra i nicaraguensi.
Secondo l’81% dei costaricensi i politici avevano poche o nessuna soluzione per i problemi del Paese. La pensava così anche il 57% dei nicaraguensi.
Il 75,4% dei costaricensi aveva, poi, poca o nessuna fiducia nei partiti, al pari del 58,3% dei nicaraguensi.
Inoltre, il 73,5% dei costaricensi aveva poca o nessuna fiducia nel proprio governo, opinione condivisa dal 58,6% del campione nicaraguense.
Il 71,4% dei costaricensi aveva poca o nessuna fiducia nel parlamento, percentuale ancora superiore al 51% di nicaraguensi.
Il 52,2% dei costaricensi aveva poca o nessuna fiducia nel potere giuridico, inferiore in questo caso al 61,2% dei nicaraguensi.
Infine, il 62,1% dei costaricensi e il 62,4% dei nicaraguensi ritenevano che nei loro Paesi non ci fosse uguaglianza di fronte alla legge.
Tale tendenza, osservata nell’inchiesta UNDP del 1996, è stata confermata o aggravata con opinioni persino più negative in numerosi sondaggi negli anni seguenti. Tanto che qualsiasi osservatore poteva percepirla prima che prendesse il via l’ultima campagna elettorale in Costa Rica, quando il governo ha promosso un censimento a livello nazionale, chiedendo la collaborazione della popolazione. Al che, un cittadino interrogato sull’importanza del censimento, ha così risposto all’intervistatore: «Così chi ci governa saprà con esattezza quanti siamo e ci potrà rubare meglio...». Si tratta di un’opinione estrema, purtuttavia rivelatrice dello stato d’animo popolare prevalente prima del voto.
La democrazia più avanzata del Terzo MondoQuesto atteggiamento della popolazione nei confronti della classe politica, delle istituzioni e della politica è una novità per il Paese centroamericano. Non va dimenticato che il Costa Rica è l’unico paese dell’America Latina che ha mantenuto dal 1948 ad oggi, in maniera ininterrotta, un sistema di democrazia liberale reale ed effettivo, il meno limitato – o il più avanzato – di tutto il Terzo Mondo, con aspetti che superano persino molte democrazie del Primo Mondo. Basti segnalare quello che pare il più importante: il Costa Rica è l’unica democrazia liberale del mondo dove le forze armate non costituiscono un forte gruppo di pressione, in grado di influire nelle decisioni delle autorità civili. Quando, negli anni ‘70, sono arrivato per la prima volta in Costa Rica arrivando dal Nicaragua, rimasi colpito dal sincero e straordinario rispetto della gente semplice nei confronti dei suoi dirigenti politici, così come la fiducia sull’efficacia delle proprie istituzioni. Ricordo che quando un tico (come popolarmente si identificano i costaricensi, ndr) litigava in pubblico con un altro, lo scontro non terminava con gli insulti e le minacce tipiche fra i nicas (come popolarmente si identificano invece i nicaraguensi, ndr) di risolvere il caso ricorrendo alle mani; al massimo della sua furia, il tico minacciava di portare l’altro in tribunale!
Questa relazione di rispetto e fiducia del popolo nei confronti delle istituzioni politiche si è conservata fino agli inizi degli anni ‘80. Cosa è successo negli ultimi vent’anni per ribaltare radicalmente quell’immagine?
L’uovo del serpente: il governo MongePer comprendere come ciò sia potuto accadere occorre risalire al governo di Luis Alberto Monge (1982-86), che ha dato il via a cambiamenti profondi nella società costaricense. In primo luogo, Monge ruppe con la tradizione di rispetto della sovranità nazionale che aveva sempre caratterizzato la classe dirigente costaricence, un tratto storico importante che aveva fatto la differenza tra l’oligarchia tica e le altre oligarchie latinoamericane, in particolare quella nicaraguense. Monge permise, infatti, agli USA di occupare il Nord del Paese per muovere (anche) da lì la guerra di Reagan contro il Nicaragua.
Di lì a poco, il coinvolgimento del Costa Rica come pedina fondamentale nella strategia del “conflitto di bassa intensità” si rivelò un grande affare. Essendo l’unico paese “presentabile” dell’istmo, il Costa Rica giocò un ruolo di “vetrina”, in contrapposizione al progetto sandinista. Ciò permise al Costa Rica di ricevere un trattamento straordinariamente flessibile da parte degli organismi finanziari internazionali, la concentrazione di quasi tutti gli investimenti stranieri nella regione e un grosso aiuto economico da parte degli Stati Uniti, salito a 1 miliardo e 430 milioni di dollari, con la differenza inoltre, rispetto agli aiuti USA al Salvador e all’Honduras, che gli aiuti militari furono insignificanti.
Tuttavia, “affittare la sovranità” si è rivelato un affare dalle conseguenze infauste nel medio periodo. Le più evidenti sono state quelle in diretta relazione, da un lato, con la presenza della Contra (era comunemente chiamata così l’opposizione armata al sandinismo, finanziata e diretta dagli Stati Uniti, ndr), e, dall’altro, con la disarticolazione della società nicaraguense, che diede luogo alla nascita di bande delinquenziali e armate, soprattutto nelle zone rurali, che facilitarono la trasformazione del Paese in una piattaforma privilegiata del narcotraffico internazionale; senza contare che, attualmente, il Costa Rica deve far fronte alla pressione sociale della diaspora migratoria nicaraguense.
Ma, ci sono altri due effetti ancor più importanti, che si sono andati retroalimentando, ma che non sempre vengono messi in relazione con la scelta di Monge di svendere la sovranità.
Ecco il primo: una delle conseguenze di quelle scelte fu lo smantellamento del modello socialdemocratico, che pure tanti buoni risultati aveva garantito al Costa Rica.
Il neoliberismo arrivò con MongeUna delle chiavi che spiegano l’eccezionalità del sistema politico costaricense sta nel fatto che la dinamica crescita degli anni ‘60 e ‘70, al ritmo di un prodotto interno lordo accumulato del 6% l’anno, fu accompagnata da una politica sociale senza paragoni in America Latina, ad eccezione di Cuba. Ma fu proprio il governo di Monge a prodursi in una virata di quel modello fino ad abbracciare la strategia neoliberista, anche se in forme più lente e con maggiori resistenze che negli altri contesti latinoamericani.
L’esperienza neoliberista del Costa Rica è stata finora – insieme a quella dell’Uruguay – la meno ortodossa in America Latina e i suoi effetti sono stati relativamente meno brutali e traumatici che nel resto dei Paesi.
Dopo una profonda crisi nel periodo 1979-1983, il Costa Rica ha registrato una modesta ma sostenuta crescita: un PIL pro capite di circa il 2% tra il 1983 e 1999. Benché segnata da persistenti squilibri finanziari, da un ricorrente deficit commerciale e da scarsa capacità di stimolare l’espansione interna, quella crescita testimoniava comunque un forte incremento delle esportazioni, che nel 2000 hanno raggiunto i 5 miliardi e 879,6 milioni di dollari, in gran parte (l’85%, pari a poco più di 5 miliardi) derivati dall’esportazione di prodotti cosiddetti “non tradizionali”. Ciò, accanto ad uno strabiliante sviluppo del turismo che nel 2000 generava entrate per 1 miliardo e 249,8 milioni di dollari. Anche questa crescita si rileva dal PIL pro capite che si aggira sui 4 mila dollari, pur considerando i limiti di questo indicatore.
Meno povertà e disoccupazione, ma crescente esclusioneGrazie alla sua eterodossia, oltre che alla moderata sostenibilità della sua crescita, l’esperienza neoliberista in Costa Rica presenta due caratteristiche fuori dalla “norma”, se consideriamo il panorama dominante in America Latina.
La prima è che non si osserva un aumento significativo della povertà. Attualmente, tale indice si aggira sul 23%, di poco superiore al 18% fatto registrare a fine anni ‘70; ciò fa sì che il Costa Rica, con l’Uruguay e le isole Barbados, abbiano gli indicatori di povertà più bassi in America Latina.
In secondo luogo, non si registra un aumento considerevole della disoccupazione, come risulta chiaramente dal fatto che il Costa Rica sia una delle mete della popolazione disoccupata nicaraguense.
Tuttavia, l’eterodossia della strategia neoliberista tica non ha impedito le asimmetrie prodotte dalla “razionalità del modello” e ciò ha causato intensi processi di esclusione e disarticolazione sociale ed etica, e in generale un profondo deterioramento della qualità della vita dei costaricensi. Sebbene l’indice di povertà non sia avanzato molto, i ceti medi – la base storica del modello politico – si sono impoveriti visibilmente, tanto che la loro fascia più bassa si trova ormai ad un limite di vulnerabilità prossima a quello degli strati poveri.
In Costa Rica, la distribuzione delle entrate si è polarizzata e il salario reale ha oggi meno potere d’acquisto che alla fine degli anni ‘70. Grazie all’apertura commerciale e al taglio dei crediti a loro favore, sono in crisi e stanno sparendo i piccoli e medi agricoltori che coltivano mais, fagioli, patate, riso per il mercato interno. La spesa sociale è inferiore a quella degli anni ‘70, i servizi pubblici sanitari ed educativi sperimentano un drastico deterioramento, a tutto vantaggio della privatizzazione degli stessi. Il trasporto pubblico, una volta eccellente, sta peggiorando sempre più, mentre i piani di edilizia popolare sono in via di estinzione.
Dove la “razionalità del modello” si dimostra in tutta la sua gravità è nella totale precarietà del lavoro: i cosiddetti rapporti di lavoro “flessibili” si sono ormai imposti e le nuove generazioni di lavoratori non godono più di quei diritti sociali che si consideravano storicamente acquisiti, quali i contratti collettivi di lungo periodo, la previdenza sociale, il diritto alla pensione, preavviso di messa in mobilità, etc..
Tutti questi processi di esclusione sociale si accompagnano con la promozione di una cultura di consumismo vorace, che sorpassa le capacità reali dell’economia, genera frustrazioni e voglie delittuose, e si ripercuote nel crescente inquinamento dei centri urbani, nell’aumento della delinquenza, del consumo di droghe e della violenza sociale e sessuale. L’insicurezza civica ha poco da invidiare a quella che si osserva negli altri paesi centroamericani, mentre un esercito privato di circa 12 mila guardie armate, alle dipendenze di 130 imprese, vigila su supermercati, banche, fabbriche, università private, istituzioni, quartieri e case residenziali.
La caduta etica della classe politicaL’altro cambiamento importante segnato dal governo Monge è l’inizio di un profondo degrado etico della classe politica costaricense. Una classe politica, quella tica, quasi mitologica in America Latina, con i suoi aneddoti reali di presidenti severi e semplici che andavano a piedi in ufficio e alcune volte erano investiti dalle automobili...
Tuttavia, se un presidente decide di svendere un valore come la sovranità, così caro per la tradizione politica del paese, come impedire che altri valori di etica pubblica lo siano, perdipiù se tale commercio è promosso da un modello economico che innalza il profitto mercantile a valore supremo dell’umanità?
Con il governo Monge è iniziata una fase di sistematici scandali di corruzione, allargatisi a macchia d’olio e che per l’opinione pubblica restano del tutto impuniti. Si va da una serie di truffe ai danni dello Stato in molti enti pubblici al riciclaggio di “denaro sporco” e al narcotraffico; dall’evasione fiscale al contrabbando; dalla corruzione alla concussione; dalle frodi operate con fondi della previdenza sociale all’acquisto di armi da Israele dai risvolti poco chiari...
In tutti questi scandali, in cui lo Stato ha perso miliardi di colones (ai primi di giugno occorrevano circa 333-334 colones ticos per un euro, ndr), sono sempre risultati coinvolti politici e imprenditori legati ai due partiti tradizionali che hanno governato il paese in questi decenni, il PLN e il PUSC.
In tutti questi casi, la gente ha dovuto constatare la completa inefficacia del sistema giuridico per fare giustizia. Alla fine di processi che durano decenni, mai vengono condannati coloro che il sentire comune segnala come i principali responsabili. E quando qualcuno di essi si sente davvero minacciato, può abbandonare il paese senza grossi problemi. Ultimamente, dei sicari hanno ucciso un giornalista che denunciava i corrotti. Per la gente, è chiaro chi siano i mandanti. Tuttavia, dopo vari mesi le autorità non hanno ancora fornito alcuna pista di indagine.
La scomparsa dei partiti di sinistraAd eccezione della persistenza di potenti camere imprenditoriali e del loro apparato ideologico che le tiene unite, il giornale La Nación e il suo emporio mediatico, il profilo della società civile costaricense è cambiato sostanzialmente rispetto agli anni ‘60 e ‘70.
Una volta influenti, i partiti di sinistra sono praticamente scomparsi. L’ultimo sforzo della sinistra storica per ricuperare il suo ascendente politico è stata l’esperienza del partito Fuerza Democrática, un raggruppamento di vecchi socialisti e comunisti, che nelle recenti elezioni non è riuscito a prendere un solo deputato, perdendo anzi i due rappresentanti che aveva nell’Assemblea Legislativa. Questa sconfitta è il risultato dei vizi di quelle organizzazioni che fanno, sì, un discorso di sinistra, ma che riproducono le forme in cui è strutturato il potere oligarchico: verticismo, rete clientelare, personalismo, competitività senza scrupoli, opportunismo programmatico, etc.. Tali vizi hanno portato alla autodistruzione di quel partito.
Il Solidarismo ha asfissiato i sindacatiScomparsi sono anche i sindacati operai nelle campagne. Negli anni ‘90, la repressione sindacale nelle imprese private arrivò a tal punto da suscitare la protesta dei sindacati statunitensi, che nel 1993, chiesero al proprio governo di sospendere la cooperazione con il Costa Rica, per mancanza di libertà sindacale.
Con il Solidarismo, la borghesia costaricense ha ottenuto un successo senza paragoni in America Latina, diffondendo un modello di paternalismo padronale che impedisce qualsiasi iniziativa di organizzazione autonoma dei lavoratori. L’ultima sacca di sindacalismo resta attiva nelle instituzioni ed imprese del settore pubblico, ma oltre ad essere diviso e viziato dal clientelismo politico, esso si trova sulla difensiva di fronte all’avanzata dell’ortodossia neoliberistica.
La fine di una gloriosa esperienza socialdemocraticaNel passato, il PLN ha rappresentato gli interessi della borghesia riformista e dei ceti medi, in contrasto con quelli dell’oligarchia tradizionale. Tuttavia, ormai da molto tempo, il PLN non è più quel partito ideologico che diede vita, forse, all’unica esperienza di successo di socialdemocrazia nel Terzo Mondo.
Attualmente, sia il PLN che il PUSC appaiono come due grandi apparati minati dalla corruzione, che pur conservando differenti matrici nei loro discorsi – più eterodossia neoliberistica nel primo, maggior ortodossia nel secondo –, nella pratica coincidono sempre più nel rappresentare i nuovi interessi egemonici della borghesia “globalizzante” subordinata al capitale transazionale, nei settori della finanza, delle esportazioni cosiddette “non tradizionali”, del turismo, delle banane, della grande importazione e dei mass-media.
Una società civile ONG...zataNegli anni ‘90, con più forza che nel resto del Centroamerica, in Costa Rica si è venuta sviluppando quella che qualcuno ha chiamato la “nuova società civile oennegizzata” (neologismo da ONG, acronimo di organizzazione non governativa, ndr): una schiera di organizzazioni femminili, ecologiste, etniche, comunitarie, cooperative, di piccoli e medi produttori, etc.. Con le loro virtù: dinamismo, flessibilità, specializzazione settoriale e, in qualche caso, critica delle tradizionali strutture di potere. Ma anche con i loro limiti: dipendenza finanziaria e programmatica dalla cooperazione allo sviluppo, carenza di proposte sociali e, in molti casi, riproduzione delle tradizionali strutture di potere.
Tali organizzazioni, specialmente quelle comunitarie ed ecologiste, hanno avuto un ruolo molto importante, un paio di anni fa, se non nella gestazione, almeno nell’alimentare il movimento di lotta contro il progetto di privatizzazione dell’Instituto Costaricense di Elettricità (ICE), l’impresa statale che fornisce i servizi di telecomunicazione ed elettricità: senza dubbio, il movimento sociale più importante negli ultimi 30 anni in Costa Rica, che ha ben presto assunto connotazioni di insurrezione popolare, con manifestazioni nelle principali città, blocchi stradali, barricate, violenti scontri con la Polizia e la Guardia Civile. Sorta spontaneamente, una volta avviata, la lotta è stata appoggiata e in parte guidata da diverse organizzazioni comunitarie, ecologiche, studentesche, sindacali, e dal partito Forza Democratica. In essa, era palpabile la delusione popolare, specialmente dei ceti medi pauperizzati, davanti al degrado etico della classe politica e al deterioramento delle condizioni di vita provocate dall’incedere della strategia neoliberista. La lotta ha avuto successo nel raggiungere il suo obiettivo immediato, obbligando il governo a sospendere il progetto di privatizzazione, auspicato dai due partiti tradizionali, e frenare temporaneamente un più vasto piano di privatizzazione di vari enti statali. E la posizione mantenuta dai partiti durante tale lotta ha pesato molto nelle recenti elezioni.
Due questioni decisiveAldilà della retorica, dei giochi di immagine e della pochezza propositiva della campagna elettorale, nel Costa Rica di oggi sono in questione due grandi problemi da cui dipendono l’orientamento futuro della società e ciò che resta della positiva eccezionalità di questo Paese nel panorama latinoamericano. Dalle scelte di fronte a queste due questioni e dal ritmo con cui cammineranno tali opzioni, dipenderanno gli scenari possibili nei rapporti fra il nuovo governo e le forze politiche e sociali.
La prima di queste questioni è se continuare o meno il programma neoliberista, in realtà, in ritardo rispetto alle esigenze dell’ortodossia. Sul piano interno ciò significa privatizzare le aziende pubbliche – telecomunicazioni ed elettricità, banca, industria petrolifera, previdenza sociale, acquedotti, distilleria – e smontare quel che resta dell’eredità socialdemocratica quanto a regolamentazione del mercato e protezione sociale. Sul piano estero, ciò significa, in breve, aprirsi sempre più, promuovendo accordi di libero scambio bilaterali, in attesa del “piatto forte” rapppresentato dall’Area di Libero Commercio nelle Americhe (ALCA).
L’alternativa è resistere a questa agenda e cercare una politica economica centrata sul piano nazionale, che salvaguardi la capacità di conduzione strategica dello Stato e recuperi la sua tradizione di responsabilità sociale. E che, a sua volta, si contrapponga al “si salvi chi può” dei trattati bilaterali e dell’ALCA, riprenda l’idea di dar vita ad un blocco regionale che dia priorità al mercato interno e negozi, in blocco, un inserimento selettivo nel mercato globale.
Cosa ci si può aspettare da Abel Pacheco? Fra i ministri e funzionari economici nominati dal neo presidente c’è il fior fiore della tecnocrazia liberista, appoggiata dalla borghesia globalizzante.
Ancor prima di tali nomine, Pacheco si era detto molto interessato all’approvazione dell’accordo di libero commercio con il Canada, attualmente in discussione in parlamento, fra le proteste dei produttori per il mercato interno. E ovviamente, Pacheco si è detto molto favorevole all’ingresso del Costa Rica nell’ALCA.
Le sue prime decisioni e i valori conservatori che lo animano portano a scartare qualsiasi iniziativa del suo governo per resistere o cercare alternative alla forza di inerzia del modello neoliberista di politica economica. Anche per questo, la frase altisonante «governerò per i poveri e gli emarginati», sia essa dettata da buone intenzioni o demagogia, non va presa molto sul serio.
D’altro canto, bisognerà vedere se questo governo sarà capace di far avanzare l’agenda neoliberista al ritmo e nelle dimensioni richiesti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla borghesia globalizzante. Dopo la lotta contro la privatizzazione dell’energia elettrica, la borghesia ha cambiato strategia ma non proposito. Tuttavia, dopo questo voto, il rispetto effettivo della agenda neoliberista si farà più difficile, sia per la fragilità del mandato che assume il presidente, sia per la memoria della ancora fresca lotta contro le privatizzazioni, sia anche per la resistenza effettiva e la mobilitazione che può vedere protagonista il PAC in parlamento, se questo partito si dimostrerà coerente con il suo programma.
I prossimi quattro anni saranno anche un banco di prova per misurare la capacità reale del PAC di promuovere cambiamenti nella società. Questo partito ha davanti a sé la sfida e l’opportunità di dimostrare la sua coerenza tra la teoria e la pratica, e al tempo stesso superare i limiti che la fretta e l’improvvisazione con cui è nato gli hanno lasciato. Dal PAC ci si aspetta ora un programma ideologico più preciso, per rendere più coesa la propria militanza e sviluppare l’organizzazione di base, specialmente tra i poveri delle città e delle campagne che in queste elezioni gli hanno girato le spalle.
La seconda questione che attraversa la società ha a che vedere con il record di astensionismo, la rottura del legame di lealtà storica verso i partiti tradizionali, il richiamo del PAC ad una nuova forma di fare politica, e la domanda generalizzata di mettere fine alla corruzione.
Tutti questi fenomeni non sono altro che manifestazioni di una profonda crisi di credibilità della politica come riferimento della volontà popolare e degli interessi della società, crisi che investe partiti, politici, instituzioni. Ricostruire questa credibilità è una sfida decisiva per il nuovo governo e per tutte le forze politiche. Da ciò dipende il recupero dell’efficacia storica del modello liberale in Costa Rica, che ha contato su un alto grado di governabilità al punto da essere il meno limitato, o il più avanzato, del Terzo Mondo.
La lotta contro la corruzione è la bandiera alzata da Abel Pacheco per rendersi credibile come politico. Non c’è ragione di dubitare delle sue buone intenzioni, tenendo conto anche che egli non ha fatto parte delle perverse congreghe di politici ed imprenditori che hanno occupato il sistema politico.
Tuttavia, seri dubbi circa l’efficacia di tale lotta sorgono al considerare il fatto che Pacheco ha dovuto negoziare con l’apparato del PUSC, mentre oggi sembra poco probabile un’alleanza con il PAC, all’insegna di un “fronte etico” con l’unica forza che si presenta con le mani libere e con la volontà di andare fino in fondo nella lotta contro la corruzione. Tuttavia, è prematuro scartare tale possibilità.
Una crisi che è planetariaPer restituire credibilità alla politica e, inoltre, maturare ideologicamente, il PAC deve comprendere con sufficiente chiarezza che la crisi della politica non è che una parte di una crisi molto più profonda che Ottón Solís appena abbozza quando segnala che quanto cerca il suo partito è costruire «le fondamenta della nuova democrazia, che esige il nuovo millennio».
Questo ragionamento fa implicito riferimento al fatto che dietro la crisi della politica, ad essere in profonda crisi è il modello di democrazia liberale borghese, ed è questo modello a necessitare riforme profonde.
E questa crisi della democrazia liberale, anche se assume caratteristiche particolari in Costa Rica, è una crisi planetaria che da molto tempo ci dice che la teoria della rappresentanza è collassata.
In tutti i paesi dove c’è stata democrazia liberale, si assiste in questo momento ad una completa disarticolazione tra gli interessi dei gruppi dirigenti politici e gli interessi delle società. Tanto che i rappresentati si sentono sempre meno rappresentati dai rappresentanti che dicono di rappresentarli...
Il consolidamento etico della classe politica e lo sviluppo di una mistica e di una etica pubblica sono una premessa fondamentale, ma non sufficiente.
È necessario che il PAC elevi a livello di proposta di società alcune sue esperienze interne e le arricchisca come riforme da introdurre nel sistema politico per construire quella “nuova democrazia che esige il nuovo millennio”: riforma del sistema elettorale, perché gli apparati al servizio del capitale non monopolizzino lo spazio politico; riforme per democratizzare all’in- terno i partiti, le organizzazioni sociali e civiche; riforme perché la libertà di espressione sia un diritto del popolo e non esclusivamente delle imprese; riforme perché le organizzazioni popolari, autono- me e democratiche al loro interno, abbiano rappresentanza e incidano permanentemente nel funziona- mento di tutti gli organi dello Stato. E soprattutto, riforme per construire una società senza esclusioni, in armonia con la natura, senza discriminazioni etniche né di genere, disposta a lottare per un mondo dove ci siano posto per tutti gli esseri umani.