«Abbiamo fatto germinare le nostre idee per imparare a sopravvivere in mezzo a tanta fame, per difenderci da tanto scandalo e dagli attacchi, per organizzarci in mezzo a tanta confusione, per rincuorarci nonostante la profonda tristezza.
E per sognare oltre tanta disperazione.»


Da un calendario inca degli inizi della Conquista dell'America.
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NORD/SUD / Crisi del caffè: tutta "colpa" del Vietnam?

Anche in questo settore si misura l’assurdità del neoliberismo.

Di Gerard Greenfield, coordinatore del Social Action Workshop for Alternatives in Asia. Il documento, del marzo 2002, è stato preparato per la Conferenza Regionale Asia-Pacifico su Terra e Libertà, organizzata dalla International Unione of Foof, Agricultural, Hotel, Restaurant, Catering, Tobacco and Allied Workers’ Associations (IUF)-Asia/Pacific. Traduzione di Matteo Rossi. Redazione di Marco Cantarelli.

Il 24 Maggio 2001, 14 giovani immigrati messicani morirono di sete nel deserto dell’Arizona mentre cercavano di entrare negli Stati Uniti in cerca di lavoro.  Sei di essi erano coltivatori di caffè dello Stato messicano di Veracruz, le cui aziende erano fallite economicamente, “rappresentanti” di circa 300 mila coltivatori di caffè messicani che hanno dovuto abbandonare le proprie terre in cerca di un altro lavoro. Quelle sei morti, diretta conseguenza del crollo dei prezzi internazionali del caffè, sono un simbolo della disperazione in cui versano piccoli e medi produttori di caffè, nonché lavoratori e lavoratrici delle piantagioni in America Latina e nel mondo.
In Nicaragua, nel 2001, centinaia di braccianti disoccupati hanno intrapreso un viaggio diverso da quello dei giovani messicani: da Matagalpa, nel nord del paese, si sono diretti a Managua per protestare contro la perdita del lavoro ed esigere dal governo sostegno ai piccoli coltivatori. Nella regione di Matagalpa, quasi 400 mila persone dipendono dal salario di 44 mila coltivatori di caffè. A seguito della progressiva caduta dei prezzi, pari al 64% in soli due anni, quelle famiglie hanno visto acutizzarsi lo stato di povertà in cui già vivevano. E, nell’incerto orizzonte di miseria non intravedono ancora alcuna soluzione.
I prezzi internazionali del caffè sono caduti al loro livello più basso degli ultimi 32 anni. Prima di tale crollo, il caffè era il bene primario più commercializzato nel mondo dopo il petrolio. Circa sessanta milioni di persone traggono il proprio sostentamento dal caffè. Ora, tale sostentamento, che era comunque precario anche in tempi più favorevoli, è minacciato.
Migliaia di fallimentiNel Salvador, la caduta del prezzo del caffè si è aggiunta alle devastazioni provocate dal terremoto del gennaio 2001, lasciando senza lavoro più di 30 mila persone. A Timor Est, gli introiti provenienti dal caffè sono caduti di circa il 35%, a scapito di 40 mila famiglie, la cui sopravvivenza dipende da questo prodotto. In Indonesia, il prezzo di 1 chilo di caffè in grani è caduto a 3.000 rupie indonesiane (a fine maggio 2002, pari a circa un terzo di euro, ndr), meno delle 4.000 necessarie per produrlo. Nelle regioni che producono caffè, come Lampung e Sumatra, i piccoli produttori sono pesantemente indebitati. Nel Sud dell’India, il prezzo del caffè di qualità Robusta è caduto dalle 73,03 rupie del 1998 a 30,24 del 2001, pari ad un calo del 58,6%. Nello stesso tempo, il costo di produzione è salito da 45,98 a 66,75 rupie indiane al chilo (a fine maggio 2002, pari a circa un euro e mezzo, ndr), più del doppio rispetto all’attuale prezzo di vendita.
Anche in Guatemala i coltivatori di caffè sono sul lastrico, mentre i prezzi continuano a scendere al di sotto dei costi di produzione. Al punto che i guatemaltechi hanno iniziato a vendere caffè di bassa qualità come combustibile industriale, nella speranza di ottenere così un miglior prezzo per il prodotto.
In Chiapas, il caffè viene bruciato per altri motivi: il 17 Aprile 2001, i soci della cooperativa di produttori indigeni di caffè Maya Vinic hanno bruciato parte del loro raccolto in segno di protesta contro il crollo dei prezzi.
Un caso analogo è occorso in Vietnam nell’agosto 2000, quando oltre 150 persone di etnia Edeh, nella provincia di Dac Lac nelle regioni montagnose centrali, hanno attaccato un insediamento di coltivatori di caffè, distruggendo case e bruciando due ettari di piantagioni di caffè. Nonostante la violenta repressione da parte del governo vietnamita, le proteste sono salite di tono e nel Febbraio 2001 4 mila Edeh e Gia Rai – un’altra etnia della zona – hanno protestato a Pleiku, capoluogo della provincia di Gia Lai, mentre altre mille persone hanno bloccato le strade intorno a Buon Me Thuot, capoluogo della provincia di Dac Lac. I manifestanti chiedevano la restituzione delle terre su cui vivono da tempi ancestrali e l’abbandono delle piantagioni di caffè che stanno distruggendo i loro boschi. Nonostante l’intervento dei soldati e l’arresto di una trentina di dirigenti della protesta, le manifestazioni sono durate quasi due settimane. Si è trattato della sollevazione rurale più importante dopo la protesta di 10 mila contadini nella provincia settentrionale di Thai Binh, a metà 1997.
Il tema comune che spinge a bruciare caffè in Chiapas e in Guatemala e a protestare in Nicaragua e in Vietnam è l’impatto della crisi del caffè sui piccoli produttori, sui braccianti e sulle loro comunità; un impatto ancora maggiore è quello sulle popolazioni indigene e le loro terre.
L’ascesa del VietnamLa rovina dei coltivatori di caffè in Guatemala e Nicaragua, le enormi perdite finanziarie in Honduras, Salvador, Timor Est e Indonesia convergono su una causa: il Vietnam. La recente irruzione del Vietnam sulla scena mondiale del caffè come produttore ha determinato un eccesso di offerta nel mercato mondiale e provocato il crollo dei prezzi internazionali.
Il presidente dell’Associazione di Caffè e Cacao del Vietnam (VICOFA), Doan Trieu Nhan, citando il presidente dell’Organizzazione Internazionale del Caffè (ICO), lo ammette apertamente: «Il colpevole della caduta del prezzo mondiale del caffè è il Vietnam». Nel lasso di un decennio, il Vietnam è passato dall’essere un piccolo produttore di caffè al secondo posto tra i Paesi esportatori di caffè nel mondo e nel primo produttore della qualità Robusta. Nel 1999, il Vietnam aveva superato l’Indonesia nella produzione mondiale di caffè di qualità Robusta ed era diventato il terzo produttore mondiale di caffè dopo Brasile e Colombia. A fine 2000, quindi, il Vietnam ha superato la Colombia, rimanendo secondo al solo Brasile.
Questa irrefrenabile ascesa è avvenuta negli ultimi cinque anni, con un’espansione della superficie coltivata da 155 mila ettari nel 1995 a 550 mila nel 2001. Nello stesso periodo, le esportazioni sono salite da 4 milioni a 14 milioni di sacchi (da 60 chili), quantità che rappresenta il 12,3% del totale dei 114 milioni di sacchi prodotti a livello mondiale. Soltanto il 4% del caffè raccolto in Vietnam si consuma all’interno del Paese: il resto viene esportato e, a causa della scarsità di impianti di torrefazione nel Paese, quasi tutto il caffè viene esportato senza essere lavorato. Gli stabilimenti esistenti, come la fabbrica statale di Bien Hoa e la Nestlé-Vietnam, producono per il mercato nazionale e lavorano molto al di sotto delle proprie capacità.
Le coltivazioni di caffè in Vietnam si concentrano nella regione montagnosa centrale, nelle province di Dac Lac, Lam Dong, Gia Lai e Kon Tum. Si tratta di  circa 470 mila ettari di terre coltivate a caffè, che rappresentano l’85% dell’area totale in tutto il Paese. Secondo alcune stime, l’area totale occupata dalle coltivazioni di caffè nelle regioni montagnose è di 514 mila ettari. L’area più grande, 264 mila ettari, si trova nella provincia di Dac Lac.
Queste piantagioni traggono origine dalla migrazione voluta dal governo vietnamita di quasi 1 milione di persone appartenenti al popolo Kinh, l’etnia più grande del Vietnam, nelle cosiddette Nuove Zone Economiche delle regioni montagnose centrali. Poiché queste confinano con Cambogia e Laos, il governo vietnamita ha promosso attivamente la migrazione dei Kinh per ragioni di sicurezza nazionale, come forma di protezione contro la sovversione delle minoranze etniche. Gruppi etnici, come gli Edeh e i Gia Rai, rappresentano da soli il 25% della popolazione di queste province. Tuttavia, anche dopo la fine della migrazione “istituzionalizzata” è proseguito il flusso migratorio di manodopera verso le regioni montagnose centrali, attratta dalle ricchezze che il caffè annunciava. Tanto che la piantagione di caffè era considerata «l’albero del dollaro».
Dal 1996, circa 400 mila persone sono emigrate verso Dac Lac per trarre beneficio dall’auge del caffè. Circa 120 mila ettari sono stati bruciati per lasciare spazio alle nuove piantagioni. Mentre i boschi ancestrali degli indigeni si trasformavano in piantagioni di caffè, molti di essi si preparavano a piantare “l’albero del dollaro”, mentre altri lanciavano una campagna per difendere le proprie terre. La distruzione dei boschi, la rapida espansione delle coltivazioni di caffè e le pratiche di irrigazione intensiva hanno provocato l’erosione del suolo e una grave penuria d’acqua. I fiumi e laghi naturali si sono prosciugati e i livelli delle acque sotterranee sono diminuiti. Quando nel 1998 è sopraggiunta la siccità, 200 bacini acquiferi si sono prosciugati e le fonti di acqua sotterranea sono diminuite per l’eccessivo sfruttamento. Durante la siccità, circa il 90% delle famiglie di Dac Lac non ha avuto accesso sufficiente all’acqua. I prezzi dell’acqua sono saliti di circa il 25% e le famiglie di piccoli produttori hanno perso più di 70 mila ettari di coltivazioni di caffè. Ciononostante, la creazione di nuove piantagioni non si è fermata e sempre più contadini chiedevano prestiti per seminare caffè e comprare fertilizzanti. I commercianti di caffè hanno iniziato a pagare in anticipo ai contadini i loro raccolti, intrappolandoli così nella rete dei debiti e nella monocoltura.
Cronaca di un tracollo annunciatoCirca l’80% delle coltivazioni di caffè nelle regioni montagnose centrali appartiene a contadini che producono su piccola scala. Tali famiglie possiedono in media 1 o 2 ettari di terra. Il restante 20% appartiene alle sussidiarie dell’impresa statale Corporazione Nazionale del Caffè del Vietnam.
A partire dal 1994, il caffè è diventato il secondo prodotto vietnamita per importanza nella creazione di divise, dopo il riso. Nel 2000, gli introiti da esportazione di caffè sono scesi a 458 milioni di dollari, una caduta del 18,8% se comparati ai 564 milioni del 1999. Fra il Gennaio e il Dicembre 2001, gli introiti sono diminuiti del 30% rispetto a quelli ottenuti nel 1999 nello stesso periodo. Nelle regioni montagnose centrali i coltivatori di caffè hanno perso circa 172 milioni di dollari nel ciclo 2000-2001.
Agli inizi del 2001, si sono registrati momentanei aumenti del prezzo del caffè che hanno stimolato i piccoli produttori a continuare a seminare caffè nonostante i segnali di un crollo dei prezzi nel lungo periodo. Nel Gennaio 2001, il prezzo di un chilo di caffè è salito a 1.000 dong a Lam Dong e a Dac Lac. Tuttavia tre settimane dopo si è registrata un’altra caduta. A metà Febbraio, i prezzi sono precipitati per cinque giorni consecutivi. Come risposta, i produttori di caffè hanno iniziato a incendiare le proprie coltivazioni. Nella sola Dac Lac oltre 10 mila ettari di caffè sono stati devastati, incendiati o abbandonati. Al tempo stesso, sono stati annunciati piani ufficiali di riduzione della produzione totale di caffè e aumento dei prezzi mediante la distruzione di 150/180 mila ettari di coltivazioni. La scelta del governo vietnamita di distruggere una così vasta superficie di coltivazioni era stata preceduta da una serie si sforzi che non avevano avuto esito, nel tentativo di ridurre la produzione e a ristabilire il prezzo internazionale.
Il 19 Maggio 2000, l’Associazione dei Paesi Produttori di Caffè (ACPC) ha approvato una risoluzione che obbligava i propri membri a non immettere sul mercato il 20% della propria produzione di caffè. Creata nel 1993 sotto la direzione del Brasile, la ACPC era formata da 14 paesi che si prefiggevano di regolare il prezzo internazionale del caffè, nello stesso modo in cui l’OPEC regola quelli del petrolio. È significativo il fatto che il Vietnam mai abbia fatto parte dell’ACPC.
Il piano proposto dall’ACPC nel Maggio 2000 si proponeva di ridurre l’eccesso di offerta esistente nel mercato mondiale e di aumentare il prezzo del caffè. Sebbene il Vietnam non facesse parte dell’ACPC, il governo vietnamita appoggiò tale proposta e trattenne il 20% delle proprie esportazioni, circa 150 mila tonnellate di caffè. A fine 2000, il governo comprò e immagazzinò 60 mila tonnellate, cui seguirono altre 90 mila tonnellate verso la fine del 2001. Tuttavia, di lì a sei mesi, il governo immise sul mercato mondiale gran parte di quella riserva, provocando una nuova discesa dei prezzi. Quando il piano di riduzione delle esportazioni fallì e l’eccesso di offerta superò il 10% della domanda, l’ACPC decise, nel settembre del 2001, di sospendere il piano. In quel momento, l’ACPC cessò di funzionare.
Altalena di prezziIn seguito al fallimento del piano dell’ACPC sono stati tentati nuovi aggiustamenti a livello regionale, soprattutto da parte dell’Indonesia. Agli inizi di Dicembre 2001, l’Associazione degli Esportatori di Caffè dell’Indonesia (AEKI) annunciò che i tre più grandi produttori di caffè di qualità Robusta , cioè Indonesia, Vietnam e India, si sarebbero incontrati ad Hanoi in Gennaio per concordare politiche comuni al fine di limitare le esportazioni ed aumentare i prezzi internazionali.
Nonostante gli sforzi profusi per far nascere un blocco post-ACPC di produttori di caffè Robusta, al fine di regolarne i prezzi, gli esportatori di caffè indonesiani hanno avuto un notevole peso nel loro recente crollo. Nel biennio 2000-2001, gli esportatori indonesiani hanno importato dal Vietnam 500 mila sacchi di caffè verde in grani per poi ri-esportarlo essi stessi; 200 mila di quei sacchi sono stati, inoltre, tostati dall’industria nazionale prima di venire esportati. Il resto, 300 mila sacchi, furono sono esportati senza alcuna lavorazione.
Nell’Aprile 2001, gli esportatori indonesiani sono tornati a importare dal Vietnam caffè verde in grani a prezzi più economici, al fine di soddisfare nuove richieste di caffè secco e tostato a basso prezzo.
Benché il Vietnam non sia riuscito a ridurre le esportazioni e abbia contribuito al collasso dell’ACPC, nel fondo, è la la dinamica politica ed economica globale e locale ad avere una più diretta responsabilità nella crisi. Essa ha alla base vari fattori. Ne citeremo tre:
1) l’impatto dei mercati finanziari internazionali;
2) il ruolo delle imprese multinazionali che dominano l’industria mondiale del caffè;
3) le pressioni del modello “agro-esportatore”.
Il ruolo dei mercatiIl prezzo base del caffè è fissato dai commercianti nella New York Coffee, Sugar and Cocoa Exchange Inc., cioè la Borsa di New York, e nella London International Futures Exchange, cioè la Borsa di Londra. Questi sono i prezzi che hanno un impatto diretto sui commercianti locali e sui produttori. Un esempio: il 9 Ottobre 2001, il prezzo del caffè di qualità Robusta alla Borsa londinese è stato fissato al livello più basso degli ultimi trent’anni.  Lo stesso giorno, il prezzo del caffè in grani a Dac Lac è sceso a 4.000 dong al chilo, pari a metà del costo di produzione.
Da un lato, la velocità di questa reazione immediata, l’impatto immediato sui mercati locali, riflettono il potere delle nuove tecnologie. Dall’altro, non è una novità, ciò dimostra il potere dei grandi commercianti delle borse di caffè e i livelli di sfruttamento dei piccoli produttori attraverso le transazioni speculative, espressione di un passato coloniale che caratterizza ancora l’industria mondiale del caffè.
Fino a quando i prezzi internazionali saranno stabiliti nelle Borse di Londra e New York dai potenti interessi economici europei e nordamericani, l’ACPC non potrà regolare efficacemente i prezzi, tantomeno proteggere i propri soci. Di fatto, l’ACPC era stata creata nel 1993, quattro anni dopo il collasso dell’Accordo Internazionale del Caffè. Nel loro intento di imporre il “libero mercato” al resto del mondo, gli Stati Uniti si opposero fermamente alla regolazione del prezzo mondiale del caffè per mezzo di quell’Accordo, provocandone la fine nel 1989. Solo dopo quella crisi, i Paesi produttori di caffè a basso costo, come il Vietnam, entrarono nel mercato e fecero affondare i prezzi.
Le multinazionali ne approfittanoAnche le corporazioni multinazionali che dominano l’industria del caffè a livello mondiale rivestono un ruolo decisivo nella attuale situazione. Nonostante la crisi, o, più precisamente grazie a essa, queste corporazioni continuano a mietere profitti. Procter & Gamble (proprietaria di Folgers), Philipe Morris (la cui filiale Kraft Foods è proprietaria di Maxwel House), Sara Lee (Hills Bros., MJB) e Nestlè, dominano il mercato mondiale del caffè. Come spiega la relazione annuale della Nestlè sulle vendite di caffè nel corso dell’anno, citata in Café Amargo: cómo los pobres pagan por la depresion del precio del café. Oxfam, Maggio 2001: «I profitti nel commercio sono aumentati e i margini di guadagno sono aumentati grazie ai prezzi favorevoli della materia prima».
Queste multinazionali non si limitano ad approfittare delle difficoltà dei produttori di caffè e dei braccianti, ma la loro manipolazione dei prezzi e della domanda di caffè a livello mondiale contribuisce all’attuale crisi. Negli anni ’80 e agli inizi degli anni ‘90, la feroce concorrenza tra le multinazionali per l’accesso al mercato del caffè ha fatto sì che venisse prestata maggiore attenzione ai prezzi che alla qualità, stimolando il consumo di caffè di qualità Robusta, cioè di bassa qualità, soprattutto quello in lattine. Ciò ha provocato una rapida espansione del caffè Robusta di bassa qualità.
Nel 1997, grossisti e dettaglianti hanno approfittato della svalutazione della moneta vietnamita, il dong (a fine maggio 2002 un euro valeva circa 14.300 dong, ndr). Multinazionali come la Nestlè hanno cominciato a comprare caffè dal Vietnam costringendo così i propri fornitori tradizionali in México e America Centrale ad abbassare i prezzi. Tuttavia, nemmeno il Vietnam ha tratto beneficio da questo cambiamento. Nonostante l’incremento dei livelli di produzione destinato a soddisfare la domanda, calcolata intorno alle 55 mila tonnellate di qualità Robusta utilizzate per caffè istantaneo durante il periodo 1998-99, la Nestlè ha acquistato dal Vietnam solamente 4.500 tonnellate. Un’altra manipolazione dei prezzi si è verificata nella recente pressione esercitata dalla Nestlè sul governo messicano. Nel Gennaio 2001, il governo messicano ha autorizzato la Nestlè ad importare 600 mila sacchi di caffè dal Vietnam, provocando così una caduta dei prezzi nel mercato locale ancor prima che fosse realizzata l’importazione.
La Nestlè ora finanzia nuovi programmi di R&D (Research and Development; Ricerca e Sviluppo, ndr) per la produzione di caffè in Thailandia, paese geograficamente vicino al Vietnam. Ha già selezionato sette delle venti varietà di caffè che intende promuovere in quel paese per dare luogo ad un’ingente produzione di caffè destinato all’esportazione. Un programma simile di R&D è attualmente finanziato dalla Banca Mondiale in un altro paese vicino al Vietnam, il Laos.
L’espansione, da parte delle multinazionali, dell’uso dei grani di caffè geneticamente modificati minaccia di ridurre ulteriormente i prezzi del caffè e minare le basi economiche dei piccoli produttori. L’avanzamento del caffè geneticamente modificato concentrerà progressivamente le coltivazioni di caffè in piantagioni agroindustriali e farà aumentare i contratti sotto controllo delle multinazionali.
L’impatto delle multinazionali è stato enorme. È, però, importante individuare due altri fattori importanti. Innanzitutto, le compagnie vietnamite hanno avuto un ruolo diretto nell’aumento della produzione di caffè. Imprese statali, in particolare VINA Caffè e le sue filiali hanno stimolato la speculazione locale sul caffè. VINA ha sviluppato stretti legami con compagnie commerciali straniere e si è prestata ad essere strumento dello sfruttamento dei produttori di caffè vietnamiti. Anche le banche commerciali statali hanno ottenuto maggiori introiti grazie al caffè e hanno elargito prestiti ai produttori locali. Un altro interesse insito nella coltivazione del caffè è stata la vendita di fertilizzanti, tanto ad opera di imprese statali in cerca di un nuovo mercato interno per l’utilizzo intensivo di fertilizzanti, quanto di compagnie statali che traggono profitto dall’importazione di fertilizzanti, in particolare in Paesi come l’Indonesia.
In secondo luogo, anche le multinazionali della regione asiatica hanno avuto specifiche responsabilità nella crisi. VINA ha sviluppato strettissimi legami con compagnie commerciali giapponesi come Itochu e Mitsui. La grande espansione della produzione di caffè di qualità Robusta è dovuta, in parte, alla crescente domanda di grani di bassa qualità usati per la preparazione di caffè solubile. Gran parte di questo commercio è avvenuto via Singapore. Un’altra importante multinazionale regionale è la Olam Internacional, con sede a Singapore. Questa è un’azienda commerciale di livello mondiale che commercia prodotti agricoli, come anarcardi e cotone, ed è una delle imprese più grandi al mondo nella commercializzazione di caffè di qualità Robusta. Di fatto, tra il 1995 e il 1996, la quantità di caffè esportato dal Vietnam a Singapore è stata doppia rispetto a quella diretta agli USA, e nel 1997 Singapore era ancora una meta commerciale più importante di Svizzera e Stati Uniti.
Di recente, Olam ha avviato in Vietnam una joint venture (cioè, un’impresa mista con compagnie locali, ndr), la Olam Vietnam S.A., del valore di 1,7 milioni di dollari. Ciò comporta l’apertura di due nuove fabbriche che lavorano il caffè nel distretto di Di Linh, nella provincia di Lam Dong, e nel distretto di Dac Nong, nella provincia di Dac Lac.
La fabbrica di Di Linh è in grado di lavorare 15-18 mila tonnellate di caffè all’anno, mentre quella di Dac Nong ha una capacità iniziale di 8 mila tonnellate. L’apertura di queste fabbriche non solo fa leva sui più bassi costi di produzione in Vietnam, ma stimola i piccoli contadini della zona a continuare a produrre caffè.
Un discusso modello di sviluppoNonostante vari giornalisti e Organizzazioni Non Governative impegnate nel commercio equo e solidale del caffè abbiano criticato le politiche della Banca Mondiale per l’eccessiva produzione di caffè in Vietnam, non esistono molte prove a supporto di tale conclusione. Per quanto la Banca Mondiale sia stata responsabile di diffondere l’ideologia neoliberista all’interno della élite politica vietnamita e di stimolare la dipendenza del paese dalle esportazioni, il volume di prestiti concessi dalla Banca Mondiale all’industria del caffè vietnamita è stato minimo.
I prestiti indiretti potrebbero avere avuto un peso, ma le decisioni riguardo i finanziamenti sono state prese dalla Banca Vietnamita dell’Agricoltura e da altre banche commerciali statali. Inoltre, il cronogramma dell’ascesa del caffè in Vietnam non coincide con l’aumento delle attività della Banca Mondiale in quel paese. Poiché le piante di caffè richiedono un periodo di quattro o cinque anni per la maturazione, la vasta semina che ha determinato il decollo della produzione di caffè avrebbe dato i suoi frutti nel 1990-91. Tuttavia, la maggior parte dei prestiti elargiti dalla Banca Mondiale e l’imposizione di politiche di “libero mercato” si sono realizzate dopo il 1995, a seguito della fine dell’embargo degli Stati Uniti. I prestiti bilaterali e gli “aiuti” ufficiali, in particolare dell’Europa Occidentale e del Giappone, hanno avuto un ruolo più rilevante della Banca Mondiale nel finanziare l’espansione del caffè in Vietnam. Ad esempio, nel momento di maggior crisi, il Fondo Francese per lo Sviluppo ha perfino annunciato nel 1998 un prestito di 40 milioni di dollari al Vietnam con lo scopo di dare inizio alla coltivazione di 40 mila ettari di caffè di qualità Arabica. Nonostante quella scelta si presentasse come “alternativa” al caffè Robusta, si è continuato a privilegiare l’espansione delle coltivazioni orientate all’esportazione. La recente diminuzione dei prezzi del caffè di qualità Arabica porta i produttori, che hanno ricevuto prestiti da questo programma al ritmo di 15 milioni di dong per ettaro, a dover affrontare problemi finanziari ancor prima del raccolto.
La ricerca di vincoli istituzionali diretti tra Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio e le politiche economiche interne porta spesso a non riconoscere le influenze strutturali e ideologiche più forti. Dal 1989, il governo vietnamita ha abbracciato aspetti importanti dell’ideologia neoliberista, sia imponendo programmi di deregolamentazione e privatizzazione ad ampio spettro, sia dando impulso ad un tipo di agricoltura orientata al mercato e all’esportazione.
Nel febbraio 2000, il governo vietnamita ha riconosciuto l’esistenza della produzione agricola capitalistica e ne ha appoggiato l’espansione. Denominata “farm economy (economia di fattoria, ndr)”, questa forma di produzione si fonda sull’accumulazione privata di terre e sull’impiego di manodopera salariata. In base al nuovo modello, i proprietari possono contrattare un numero illimitato di braccianti, determinandone i salari. Possono anche ipotecare le proprie terre per ottenere prestiti dalle banche statali. È nel contesto del commercio agricolo, nell’espansione dell’esportazione e nell’ascesa  della nuova economia, che la Banca Mondiale ha avuto un ruolo importante, non tanto attraverso la concessione di prestiti diretti, quanto nel plasmare e rafforzare un’ideologia neoliberista dello sviluppo. Ciò ha avuto un peso maggiore per le condizioni imposte al Vietnam dal governo degli Stati Uniti con il nuovo accordo di commercio bilaterale e per le dolorose condizioni necessarie per entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Le pressioni strutturali a livello nazionale, compresa quella finalizzata al pagamento del debito estero, sono altrettanto importanti per la comprensione del problema. Ciò significa che le condizioni sociali, politiche ed economiche che obbligano i governi ad adottare strategie di sviluppo orientate all’esportazione, per le quali restano poi intrappolati in un “modello di sviluppo” specifico, hanno influito in modo determinante sullo scoppio di questa crisi.
Intrappolati dai debitiUna delle ragioni del devastante impatto del crollo del prezzo internazionale del caffè risiede nel fatto che per molti Paesi del Sud le esportazioni rappresentano un’indispensabile fonte d’entrata monetaria, per pagare il debito estero. La pressione per il pagamento del debito stimola le esportazioni, intrappolando questi Paesi nel regime del libero scambio e degli investimenti dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e nelle politiche di aggiustamento strutturale della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Il mancato rispetto delle date fissate per il pagamento del debito condanna i governi di questi Paesi a un maggior controllo da parte delle banche multinazionali e del Fondo Monetario Internazionale.
La pressione del debito intrappola anche i piccoli produttori. I prestiti elargiti che prevedono l’ipoteca del raccolto promuovono la monocultura, la dipendenza da un’unica coltivazione e sono vincolati al raggiungimento delle quote stipulate. Il rischio di cadere in mora implica la perdita delle terre. In ottobre, la Banca statale del Vietnam ha ordinato una moratorio di tre anni a favore dei produttori di caffè, per consentire loro di rimborsare i prestiti. Tuttavia, tale provvedimento si applica solo ai prestiti formali concessi dalle banche statali. Molti produttori di caffè sono soliti indebitarsi con i prestatori privati e commercianti che pretendono alti tassi di interesse e mirano a riscuotere i crediti in forma di terre o caffè.
Alla fine di questo ciclo, i contadini non riescono a diversificare le proprie coltivazioni e rimangono soffocati da prestiti che inducono solo alla produzione destinata all’esportazione. Il danno subito dai produttori di caffè, nel lungo periodo che precede il primo raccolto, è molto grave. Ironicamente, mentre crollano i prezzi del caffè, i produttori si vedono obbligati a intensificare l’uso di fertilizzanti ed aumentare la produzione al fine di riuscire a pagare i debiti. Solitamente, il risultato è il fallimento. Secondo la relazione pubblicata da Notizie Economiche del Vietnam nel Gennaio del 2001, la caduta dei prezzi delle esportazioni agricole coincide con l’aumento dei costi dei fertilizzanti. Il documento mette anche in evidenza che solo il 9% dei 12 milioni di famiglie contadine vivono in case costruite in mattoni, quasi 3,5 milioni non hanno accesso all’elettricità e tra 3 e 4 milioni non dispongono di acqua potabile. A Dac Lac, i coltivatori di caffè che hanno incendiato le proprie piante stanno cercando disperatamente un’altra coltivazione adatta alla esportazione che permetta loro di guadagnare in modo sufficiente per pagare i propri debiti. Tuttavia, il basso prezzo degli altri prodotti agricoli, compresi il riso e il pepe nero, rende tutto ciò difficile. Gli unici prodotti che attualmente non subiscono un calo sono frutta e verdura. La disperazione dei piccoli agricoltori vietnamiti minacciati dall’indebitamento e dal fallimento è del tutto simile a quella che portò i produttori di caffè messicani di Veracruz ad attraversare il deserto dell’Arizona in cerca di fortuna.

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